La metamorfosi della Memoria. Da Kafka al 2023

In questo 2023, dopo 78 anni dalla fine della guerra, ci ritroviamo un pensiero fascista di nuovo normalizzato. Tre riflessioni per la Giornata della Memoria.

Mauro Barberis

Qui di seguito, in occasione della Giornata della Memoria e della nona edizione di Convivere con Auschwitz (2023), vorrei fare tre cose. Primo, partendo dalla Metamorfosi di Kafka, immaginare il clima culturale, non troppo diverso dal nostro, che resero possibile la Shoah e l’Olocausto. Secondo, ricostruire l’aspetto al contempo più significativo e più attuale della metamorfosi kafkiana: la disumanizzazione. Terzo, segnalare l’aspetto più inquietante e diffuso, perché comune all’intera cultura digitale, della de-umanizzazione: la perdita o, peggio, la banalizzazione della Memoria.

1. La Metamorfosi (1915) di Joseph Kafka, scritto poco più di cent’anni fa, durante la Prima guerra mondiale, è un testo profetico sotto molti profili. Dal nostro punto di vista – la Shoah e l’Olocausto, successivi di trent’anni – è profetico per il clima sinistro che vi si respira, nel quale diventano possibili cose altrimenti impensabili: in particolare che le tre sorelle di Kafka, sopravvissute alla sua morte prematura, nel 1924, siano state inghiottite dai campi di sterminio, e la più amata, Ottilie, “Ottla”, proprio ad Auschwitz. Solo per ricostruire il clima ricordo appena la storia, del resto notissima.

Una mattina come tante Gregor Samsa, un commesso viaggiatore da cui pare di capire che la famiglia (padre, madre e la sorella Grete, forse la stessa Ottla) dipenda economicamente, si sveglia nel letto di casa trasformato in un enorme scarafaggio. A differenza che nel Rinoceronte (1959) di Eugène Ionesco, la trasformazione in animale non si trasmette ai parenti e agli altri umani con cui il protagonista entra con sempre maggiore difficoltà in contatto. Gregor viene infatti isolato, rinchiuso nella sua stanza, rifiutato dal padre, ignorato dalla madre; solo la sorella gli porta ancora da mangiare.

L’unica cosa che si trasmette agli altri umani – il capufficio di Gregor, che lo viene a cercare e fugge inorridito, i pensionanti ai quali i parenti tentano di affittare altre stanze della casa – è il ribrezzo, l’isolamento, il rifiuto. Quando finalmente Gregor muore, il suo immenso corpo da insetto viene gettato nella spazzatura, i parenti si trovano una casa più piccola, e durante una passeggiata in campagna si accorgono improvvisamente che la figlia, nonostante tutto, è cresciuta, è diventata bella, si tratta di trovarle un marito. La vita continua come prima, dunque, l’incidente è chiuso.

2. L’aspetto più evidente, ma anche più profetico del racconto – pubblicato in vita, a differenza di libri come Il Processo e Il Castello, che avrebbero dovuto essere distrutti e che invece ci sono pervenuti solo grazie all’amico e legatario infedele, Max Brod – è la disumanizzazione che investe non solo il protagonista ma, verrebbe da dire, ancor di più gli altri umani. Dal momento della metamorfosi, infatti, Gregor non esiste più per loro. Tutti pensano solo a liberarsene; anche i suoi tentativi di comunicare sono resi vani dal fatto che la sua voce è mostruosamente cambiata, come tutto il resto.

Se anche Kafka non fosse appartenuto alla comunità ebraica di lingua tedesca di Praga, verrebbe spontaneo pensare che lo stesso avrebbe potuto accadergli, nel corso di una vita precocemente interrotta dalla tubercolosi, se fosse vissuto abbastanza da conoscere anche lui il nazismo, come le sorelle. È probabile che nelle intenzioni dell’autore la metamorfosi fosse solo una metafora del processo di alienazione individuale e familiare, documentato dalla successiva Lettera al padre (2019). Ma la metafora fatalmente dilaga sino a rappresentare la disumanizzazione degli ebrei.

L’apice novecentesco di questo processo è stata la reificazione del popolo ebraico, di cui è piena la letteratura sullo sterminio: il popolo ebraico, e i singoli ebrei, sono sacrificati alla distopia del governo planetario da parte della razza ariana. Fra i tanti esempi ricordo Nerina, la donna che si salva dal proprio carnefice dicendogli solo Ich Bin Schwanger, sono incinta: frase che la re-umanizza e dà il titolo al bel libro di Anna di Gianantonio e di Gianni Peteani, edito a maggio 2022 dall’Istituto Regionale per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea del Friuli-Venezia Giulia.

3. Della de-umanizzazione fa parte un altro processo, la perdita della Memoria: processo certo non prodotto ma spaventosamente accelerato dalla rivoluzione digitale in corso. Agli inizi degli anni Novanta, dunque prima della digitalizzazione, il settimanale Cuore rese noto un sondaggio nel quale una percentuale considerevole dei ragazzi dell’epoca attribuivano già la bomba e relativa strage fascista di piazza Fontana (1969) alle Brigate Rosse. Terroristi, questi, colpevoli di crimini altrettanto gravi, ma individuali e rivendicati, non di bombe fatte esplodere nelle piazze, nelle banche o sui treni.

Che la memoria si perda, specie fra chi non ha partecipato personalmente agli avvenimenti, è fatale, ma de-umanizza: dopotutto la storia umana viene fatta iniziare dalla fine della preistoria, quando l’invenzione della scrittura permise di lasciare traccia degli eventi passati. Senza la scrittura, gli eventi migliori e peggiori si perderebbero come Aperol nello spritz, per citare il Luca Zaia imitato da Crozza, invece del solito Blade Runner. Invece, la digitalizzazione, dell’informazione, il suo passaggio su internet, invece di moltiplicarla porta a perderla, lei sì, come lacrime nella pioggia.

Pensateci: che ragione c’è di studiare la storia o, se è per questo, anche la geografia, insomma di studiare tout court, quando tutto si trova ormai su Wikipedia? Di fatto, ragionano ormai così non tanto i nativi digitali o la generazione Z, che stanno imparando a proprie spese a non fidarsi dei loro cellulari, quanto i miei coetanei, i boomers, o quelli della generazione successiva, i cinquantenni, che trovano in internet una giustificazione cotta-e-mangiata per l’analfabetismo di ritorno. E allora chiediamoci: qual è l’effetto del digitale, non sulla memoria in generale, ma sulla Memoria con la maiuscola?

Qui vorrei sfuggire al sospetto di buttarla in politica, non è questa la sede, eppure non posso evitare di menzionare, anche perché ne resti traccia, l’esperimento di massa di cui siamo tutti testimoni e partecipanti, noi italiani, dopo le elezioni del settembre 2022. Lungi da me, in particolare, l’intenzione di demonizzare il nuovo governo richiamando le radici fasciste di Fratelli d’Italia, via Movimento sociale e repubblica collaborazionista di Salò: il suo capo, Giorgia Meloni, ha trovato le parole e le lacrime giuste per ricordare la Shoah, e anche i suoi oppositori si guardano bene dal demonizzare.

Inutile menzionare, ad esempio, il quasi cinquanta per cento di voti, trentadue dei quali a FdI, superiori alla media nazionale, raccolti dal centrodestra a Sant’Anna di Stazzema, luogo di una delle più efferate stragi nazifasciste, consumata da tre reparti tedeschi in un comune della provincia di Lucca, con oltre cinquecento morti, un centinaio dei quali bambini, molti sfollati lì da altre località lungo la Linea Gotica. Chi se la ricorda più, cos’era la Linea gotica? Di fatto, i cittadini di Sant’Anna, dopo aver provato Berlusconi, Renzi, Grillo, oggi hanno fatto lo stesso con la Meloni, punto, avanti il prossimo.

Però ripensiamo un attimo a quanto è successo e sta ancora succedendo: alla normalizzazione o banalizzazione del fascismo – così la chiamerei – portataci da questo 2023. Non la perdita pura e semplice della Memoria, alimentata anzi ogni giorno da centinaia di libri, film, documentari, testimonianze. Piuttosto, l’irrilevanza della Memoria, la sua indistinguibilità dalle emergenze senza fine dell’attualità. Dopotutto, orrori comparabili si compiono ogni giorno attorno a noi, in Ucraina, in Iran, in Cina, e scorrono anche loro su di noi, ormai indifferenti come pietre.

Foto Flickr | Joseph Azamene Saatsop



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