Consip si rinnova. L’ad Mizzau: «Sarà l’Amazon della Pa vicina alle imprese»
di Antonella Baccaro
di Federico Fubini
All’ultimo incontro fra ministri finanziari dell’euro, una settimana fa a Lussemburgo, il presidente dell’Eurogruppo Paschal Donohoe e il tedesco Christian Lindner erano rimasti sulla linea di sempre: apertura a ridiscutere le funzioni del Meccanismo europeo di stabilità, certo. Ma solo dopo la ratifica italiana della riforma già concordata. Non prima. Né da parte di quei due, né degli altri ministri europei c’era stata polemica verso Giancarlo Giorgetti. Al contrario, c’era comprensione per quanto aveva spiegato il collega italiano: «Oggi non esiste una maggioranza in parlamento per ratificare le modifiche al Trattato del Mes — aveva detto il ministro leghista —. E dobbiamo stare attenti perché, se il voto fallisse, non potremmo ripeterlo per sei mesi».
Lindner in particolare con Giorgetti discute molto. Il ministro delle Finanze di Berlino ha qualità diplomatiche superiori ai suoi predecessori, da Wolfgang Schäuble o allo stesso Olaf Scholz che oggi è cancelliere. Con il collega italiano mantiene scambi su un gran numero di questioni: dalla riscrittura delle regole di bilancio, all’investimento di Lufthansa in Ita. Ma con il colpo di freno di Donohoe e di Lindner stesso, Giorgetti ha avuto la conferma di ciò che sapeva da un pezzo: non sarà l’Europa ad aprire alla Lega e a Fratelli d’Italia la via di fuga da dieci anni di retorica anti-europea. Nessuna polemica verso Roma. Ma i partner europei non offriranno al governo gli argomenti per camuffare di fronte ai propri elettori ciò che tutti i leader del centro-destra in Italia sanno essere inevitabile e anche innocuo: una marcia indietro sostanziale, con la ratifica della riforma del Mes nei termini negoziati a fine 2020 dal secondo governo di Giuseppe Conte. Poco importa che oggi il leader del 5 Stelle, proprio come Matteo Salvini della Lega o la premier Giorgia Meloni, finga di essere critico di quell’accordo che concluse lui stesso (benché la firma sia poi arrivata con il governo di Mario Draghi).
Dunque l’Italia sarà chiamata a confermare l’assetto del Mes così come era stato concordato. Senza scambi preliminari sul Patto di stabilità (prefigurati da Meloni il 9 giugno) e senza avviare prima nuove modifiche al Meccanismo. In realtà all’interno dello stesso Mes, guidato dal lussemburghese di origine italiana Pierre Gramegna, c’è già l’idea di una «riforma della riforma»: utilizzare i 417 miliardi di potenza di fuoco dell’organismo a garanzia di parte del debito pubblico dei Paesi dell’euro se si indebitano per finanziare investimenti strategici. Ma appunto questo dibattito è per dopo. Nessuno in Europa accetta che sia una precondizione alla ratifica italiana.
Il che riporta la questione là dove essa è sempre stata, dentro la lotta politica italiana: soprattutto quella fra Lega e Fratelli d’Italia per l’elettorato euroscettico, ora che mancano undici mesi alle europee. Chi conosce le dinamiche della maggioranza spiega che, dietro la riluttanza di ciascuno dei due partiti a muovere per primo sul Mes, c’è il timore di lasciare al concorrente il voto sovranista alle europee. Ma a microfoni spenti, si fatica oggi a trovare un leader di primo piano della Lega o di Fratelli d’Italia che non capisca ciò che è sotto gli occhi di tutti: ratificare la riforma non significa essere colonizzati dalla Troika né rischiare di esserlo; essa è un cambio marginale e in meglio di ciò che già c’era, perché crea una protezione in più in caso di crisi bancaria; e un disco verde farebbe calare il costo del debito italiano — come ha scritto il Tesoro alla Camera — perché sarebbe un «segnale di coesione europea». A Roma si conta dunque sul fatto che al resto d’Europa arrivi il segnale sostanziale di ieri: non l’azione, ma l’omissione della maggioranza in commissione Esteri della Camera ha mandato avanti — verso la plenaria — la ratifica del Trattato. Dove in teoria ora il voto è previsto venerdì della prossima settimana, ma chi è nel governo vede già un argomento per il rinvio: quel giorno si terrà il Consiglio europeo dei leader a Bruxelles.
Dunque la ratifica è rinviata e si farà attendere ancora, perché per anni molti leader sovranisti hanno costruito una loro facciata e ora temono le conseguenze elettorali dello smontarla. Neanche fosse un set cinematografico. Ma fa parte del cambio di pelle di forze cresciute nel populismo fino a responsabilità di governo, dove confondere la vecchia retorica con la realtà diventa pericoloso. In gioco c’è la stabilità del debito pubblico, il grande normalizzatore del sovranismo assurto al potere: respingere la ratifica del Mes oggi significa mettere in gioco il prezzo dei titoli e il costo di finanziamento dello Stato. Probabile dunque che alla fine questo sarà l’argomento per spiegare la ritirata di fatto: questo governo ha già collocato titoli sovrani per circa di 300 miliardi e presto dovrà alzare la stime di nuove emissioni nette del 2023 a circa 90 miliardi. Lasciar passare il Mes — si dirà — significa proteggere i risparmiatori italiani.
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