Psicologia e benessere, la Generazione Z e il disagio mentale: parlarne di più aiuta a crescere

di Andrea Federica De Cesco

Sui social, #mentalhealth è un hastag fortissimo: decine di miliardi le visualizzazioni su TikTok, milioni i post su Instagram. Grazie anche alla pandemia, i ragazzi hanno messo le loro esperienze in comune, superando la «vergogna» della malattia. La linea degli psicologi e qualche cautela

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Fedez, Aurora Ramazzotti e Bella Hadid

Questo articolo e molti altri servizi dello Speciale Psicologia e Benessere sono stati pubblicati su 7 del 21 ottobre, che trovate in edicola. Ne proponiamo online alcuni (vedi i link nel Leggi anche) estratti per i lettori di Corriere.it

Questa non è solo l’epoca in cui il numero di persone con disturbi mentali ha raggiunto livelli mai toccati prima. È anche l’epoca in cui di disturbi mentali si parla più che mai. Secondo il 72% dei 3.330 partecipanti a un sondaggio del Corriere della Sera con ScuolaZoo (community dedicata alla generazione Z), rispetto a due anni fa, di psicoterapia e salute mentale si parla soprattutto sui social, che pure rappresentano uno dei principali responsabili dell’aumento dei disturbi mentali, in particolare tra i giovanissimi. L’87% si è imbattuto nel tema su Instagram, TikTok & Co., e il 36% ha pensato di fare un incontro di psicoterapia proprio dopo averne sentito parlare sui social. La conferma arriva da chi con i social ci lavora, come Caterina Zanzi. «Rispetto a otto anni fa, quando ho iniziato il mio lavoro online, il tema si è fatto più frequente. E questo ha contribuito a far diminuire lo stigma che da sempre aleggia sui temi delle malattie mentali e della loro cura», commenta la fondatrice del blog Conosco un posto .

Su Tik Tok

«Parlarne, insomma, è già qualcosa. Soprattutto per noi Millennials, figli di una generazione che ha posto il tema della salute mentale molto ai margini della conversazione. La Gen Z mi pare si sia liberata ancora di più di questi stigmi, e su TikTok se ne parla ancora più che su Instagram». Su TikTok ad agosto l’hashtag #mentalhealth aveva 42 miliardi di visualizzazioni, su Instagram contava 41 milioni di post. Sono cifre enormi, in continua crescita: ad aprile erano rispettivamente 30 miliardi e 37 milioni. Ed è una crescita che pare rispecchiare quella degli accessi negli studi professionali. «Il Covid e la guerra in Ucraina, insieme alla crisi economica e ai disastri ecologici, sono stati fattori psicosociali importanti per l’incremento della richiesta d’aiuto», spiega Luigi Janiri, professore di psichiatria alla Cattolica e presidente della Fiap (Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia).

Il cambio di rotta

«In generale c’è stato un cambio di rotta epocale, un aumento dell’incertezza che fa sì che non si pensi più in termini progettuali». I vari lockdown, in particolare, hanno anche dato una spinta importante per quanto riguarda la progressiva normalizzazione della psicoterapia. «All’improvviso ci siamo trovati a casa con noi stessi e i nostri problemi. È come se il Covid avesse detto “ora fermiamo tutto e facciamo i conti con quello che hai dentro”», osserva Francesca Picozzi, psicologa clinica classe 1995 molto seguita su TikTok (@francescapicozzipsico). «Durante la pandemia come molti altri colleghi ho registrato un forte aumento della domanda, aumento che nel mio caso è stato di circa il 30%, con il 70% dei nuovi ingressi da Instagram», racconta la psicologa e psicoterapeuta Valeria Locati, @unapsicologaincitta sui social, autrice e conduttrice del podcast Storytel Original Ansia? Parliamone. «Questo aumento non dipende solo dal fatto che le persone sono state peggio. La consapevolezza del bisogno di prendersi cura della propria salute mentale stava già crescendo. Un altro motivo è che con la pandemia si è diffusa di più la psicoterapia online, che pure c’era sempre stata. In questo modo la psicoterapia è diventata parte della vita di un numero maggiore di persone».

«SIAMO CONSIDERATI LA GENERAZIONE DEI DEPRESSI E DEI FANNULLONI. MA SE FINALMENTE SI DISCUTE DI SALUTE MENTALE IN ITALIA IL MERITO È NOSTRO»

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Instagram Therapists

Proprio durante l’emergenza sono state create nuove piattaforme di videoterapia, come Gli Psicologi Online e Serenis, e sono state rafforzate quelle che esistevano già, a partire da Unobravo e dal servizio online del Centro Medico Santagostino. La società però aveva iniziato a cambiare visione della salute mentale già prima della pandemia, come sottolineano Janiri e Locati. «Uno sdoganamento importante è avvenuto all’inizio degli anni 2000 con la serie tv I Soprano », ricorda Jonathan Zenti, scrittore e autore del podcast Problemi . «Il resto lo ha fatto Instagram». Il proliferare dei cosiddetti TikTok o Instagram therapists ha portato l’American Psychological Association a pubblicare, nel 2021, delle linee guida rivolte ai professionisti della salute mentale su come usare i social media. Ma a parlare di psicoterapia e salute mentale su Instagram & Co. non ci sono solo gli specialisti. Ci sono anche influencer e celebrità (dalla supermodella Bella Hadid alla ginnasta Simone Biles). E poi, utenti qualunque e persone con disturbi mentali che condividono pezzi della loro quotidianità, per lo più molto giovani. E persino millantatori di vario genere.

Aurora Ramazzotti

Se la crescita dei contenuti social sulla salute mentale da un lato ha contribuito e sta contribuendo ad abbattere gli stereotipi e a creare una community di ascolto e supporto per chi è in difficoltà, dall’altro il fatto che la salute mentale sia diventata un trending topic ha anche risvolti negativi. «Alcuni ragazzini si sono resi conto che parlando di salute mentale possono ottenere follower e visualizzazioni», commenta Aurora Ramazzotti, conduttrice con Valeria Locati di Blue Chats, una serie di talk sulla salute mentale giovanile pubblicati sui canali di Freeda. È su TikTok nello specifico che emergono le derive più inquietanti, come racconta Francesca Picozzi: «Si trovano video di ragazze che si mostrano prima e dopo aver assunto determinati farmaci [psicotropi] che fanno prendere peso: può succedere che chi li vede decida di non sottoporsi alla cura. In altri video utenti per lo più molto giovani elencano i disturbi mentali che hanno o reputano di avere». Picozzi lo riconduce a un bisogno di appartenenza, con film quali Joker e serie tv tipo Euphoria come punti di riferimento. La sofferenza psichica finisce così per essere romanticizzata, diventando oggetto di fascinazione. Ed è proprio sui social, il regno dell’immagine, che si costruisce l’estetica dei disagi mentali. «A volte etichettarsi un disturbo fa quasi figo», prosegue Picozzi. È un fenomeno che ha colto anche Caterina Zanzi: «Stare male fa schifo e forse bisognerebbe stare attenti alla possibilità di “mitizzare” condizioni di squilibrio psichico». Un altro rischio, altrettanto insidioso, è quello della banalizzazione: dai balletti su TikTok con in sovraimpressione frasi che descrivono “i dieci sintomi della depressione” all’idea che le sedute con la o lo psicoterapeuta siano degli impegni da incastrare nella “settimana tipo”, insieme alla palestra o all’estetista. «Chiunque ne sente il bisogno dovrebbe poter andare in terapia, ma non come se fosse una sorta di tagliando da fare per forza», commenta Valeria Locati.

«I SOCIAL HANNO AIUTATO I RAGAZZI A USCIRE DALLA CULTURA DEL SACRIFICIO, DALLA LOGICA SECONDO CUI BISOGNA SUDARSI TUTTO»

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Il giudizio della massa

«Alzo le antenne quando sento dire “la mia terapeuta ha detto che devo fare così”. La terapia non può essere una moda. Se racconti il tuo percorso come se lo fosse vuol dire che qualcosa non va». Secondo Daniela Collu, conduttrice radiofonica e scrittrice, il punto è che spesso dietro alla normalizzazione c’è il giudizio altrui: «Certo che se qualcosa passa attraverso l’esperienza comune è più facile accettarla. Ma mi fa paura che la normalizzazione dipenda dal giudizio della massa. Penso che invece sia importante rispettare i tempi, i modi e le posizioni dei singoli». Locati e Picozzi sono convinte che la responsabilità di come si parla di psicoterapia e salute mentale sia in gran parte della loro categoria. «I professionisti devono sapere se e come rispondere alle richieste dei loro follower», commenta Picozzi. E Locati aggiunge: «Vedo una certa confusione tra cos’è la divulgazione e cosa la psicoterapia. Sui social non si può divulgare cosa accade nella stanza di terapia. Si può invece provare a offrire spunti di riflessione, in una logica non lineare». Picozzi, che ha un pubblico di ragazze adolescenti, realizza sketch il più generici possibile: «Molti nei commenti mi fanno domande, spesso sull’ansia. Invito a trovare uno spazio dove parlare».

Distinguere le persone serie da chi improvvisa

Certo è che, come dice Daniela Collu, non sempre è facile «distinguere le persone serie da chi improvvisa». E proprio per questo motivo la conduttrice nell’autunno 2020 ha pubblicato su Medium un elenco di specialisti intitolato Sostegno psicologico e dove trovarlo. «È vero che si tende a chiamare qualsiasi tipo di problematica con il nome di una malattia mentale», prosegue la conduttrice. «Comunque penso sia molto positivo che si sia squarciato il velo e che ci si possa interrogare su quello che si sta vivendo. Persone felici, equilibrate e consapevoli fanno una società felice, equilibrata e consapevole. La salute mentale altrui è una cosa da cui il resto del mondo trae vantaggio e fortuna». Valeria Locati è convinta che proprio Collu e gli altri influencer che si occupano - anche - di salute mentale abbiano un ruolo importante nel ridurre i pregiudizi sul tema. Al tempo stesso, sottolinea Jonathan Zenti, ci sono alcuni punti critici: «Gli influencer in genere parlano soltanto degli aspetti che rientrano nell’utilizzo borghese ed edulcorato della psicoterapia, tralasciando questioni come il supporto psicologico in carcere. La parte più oscura è diventata ancora più oscura, quella leggera ancora più leggera. E mi pare che faccia più figo parlare di andare in terapia anziché andarci. Ecco perché spesso si riporta quello che dice lo psicoterapeuta».

Aurora Ramazzotti

D’altra parte condividere la propria esperienza - sui social o altrove - può innescare un circolo virtuoso. «Lo trovo salvifico, aiuta a sentirsi meno soli nel dolore», dice Aurora Ramazzotti, sostenitrice della proposta di legge lombarda per istituire lo psicologo di base. «Per questo credo che Fedez abbia fatto bene a pubblicare l’audio della seduta dallo psicologo di quando ha scoperto di avere un tumore. Io voglio far passare il messaggio che non si va dallo psicologo solo dopo che si è toccato il fondo». È un pensiero condiviso da Danila De Stefano, ceo e fondatrice del servizio di psicologia online Unobravo: «Sarebbe importantissimo ragionare in un’ottica preventiva e prendersi cura della propria salute mentale sempre, a 360 gradi». La prima generazione a mostrare una maggior apertura verso la terapia è stata, come diceva Caterina Zanzi, quella dei Millennial, ribattezzata “Therapy Generation”. Tornando alla ricerca del Corriere con ScuolaZoo, il 54% dei partecipanti tra i 26 e i 35 anni e il 60% tra i 36 e i 49 anni ha detto di avere fatto qualche forma di psicoterapia. E tra chi non ne ha fatta rispettivamente l’80% e il 60% ha intenzione di farne.

La cultura del «sudarsi tutto»

Per quanto riguarda la generazione Z, a intraprendere percorsi psicoterapeutici è stato il 32% dei partecipanti tra i 14 e i 18 anni e il 41% di quelli tra i 19 e i 25. Tra chi ha risposto di no, il 69% dei primi e il 79% dei secondi vorrebbe provare. Un ritratto della Gen Z prova a farlo Francesca Picozzi: «Spesso sono ragazzi molto sofferenti e introspettivi. D’altra parte, sono più aperti verso la cura rispetto agli adulti. Molti nei commenti mi dicono che vogliono andare dallo psicologo, ma i genitori non vogliono. Ci si lamenta dei ragazzi che si lamentano, ma nessuno pensa “Il mondo dovrebbe essere diverso”? Perché dovremmo sacrificare la nostra salute mentale, le nostre energie per un lavoro da otto euro all’ora? I social hanno aiutato i ragazzi a uscire dalla cultura del sacrificio, dalla logica secondo cui bisogna sudarsi tutto». È un ritratto in linea con le parole di Alessia La Volpe, 20 anni, testimonial per la prevenzione dei disturbi alimentari: «Siamo considerati la generazione dei depressi e dei fannulloni. Ma siamo proprio noi a cercare di portare alla luce la tematica della salute mentale: a scuola, in TV, sui social e persino nel “mondo degli adulti”».

Senza vergognarsi della propria fragilità

La ceo di Unobravo Danila De Stefano è dello stesso parere: «I giovani si confrontano su come si sentono, si confidano e si espongono di più senza vergognarsi della propria fragilità, senza sentire il bisogno di nasconderla. Molti, tra le generazioni più adulte, tendono invece ad aspettare che il malessere diventi insopportabile». Le generalizzazioni, però, come sempre sono sbagliate. Anche nella generazione Z, per esempio, le donne sono tendenzialmente più sensibili ai temi della salute mentale e più aperte verso la psicoterapia degli uomini. «La Gen Z non è un blocco uniforme. Ci interfacciamo con ragazze e ragazzi che provengono da territori e contesti sociali e familiari diversi», osserva Valerio Mammone, direttore editoriale di ScuolaZoo. «Le differenze, in termini sia di sensibilità sia di possibilità economiche, sono evidenti. Per questo è fondamentale portare esperti di salute mentale nelle scuole (ScuolaZoo promuove l’istituzione dello psicologo scolastico, al centro di una proposta di legge presentata dal deputato Emilio Carelli, ndr): perché il cambio di percezione e l’accesso alle cure siano a disposizione di tutte e tutti e non solo di chi ha la fortuna di nascere in contesti più fortunati o sensibili».

Insufficiente offerta pubblica dedicata a salute mentale

Ariman Scriba, attivista per la salute mentale, ha cominciato a parlare di disagio e malessere psichico due anni fa, dopo il suicidio del fratello. «Il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani. Non trovo accettabile che i ragazzi perdano la vita per problemi non compresi. In contesti di disagio, soprattutto tra persone di classe sociale bassa, è difficile trovare uno spazio di cura», dice. Secondo l’attivista, in Italia l’offerta pubblica dedicata alla salute mentale è insufficiente: «Sono servizi che offrono un numero limitato di sedute e per accedervi bisogna attendere a lungo. Invece i percorsi terapeutici in genere necessitano di tempo e quando si chiede aiuto spesso si è in una situazione di emergenza. Inoltre gli ospedali psichiatrici ancora oggi assomigliano a luoghi di tortura». Sono parole che fanno venire in mente il manicomio raccontato dal giornalista Gabriele Cruciata nel podcast La gabbia dei matti, su Storytel, ossia il Santa Maria della Pietà di Roma.

La Legge Basaglia e quel che resta da fare

«La situazione è migliorata molto grazie alla legge Basaglia, che ha rappresentato una vera riforma culturale. Dopo la sua introduzione i problemi mentali hanno iniziato a essere affrontati non più con la segregazione, ma con l’inclusione», spiega Cruciata. «Basaglia sosteneva che i manicomi dovessero essere aperti. Cambiando l’approccio la società esterna si è resa conto dell’esistenza delle persone con disturbi mentali, che prima non venivano viste». Scriba ritiene però che ci siano «troppa superficialità e troppo individualismo. Credo che la cura dovrebbe essere comunitaria, ha poco senso porsi sempre sul sé. Certi disagi profondi non vengono colti, non ci sono strumenti umani per gestirli. Le persone che soffrono rimangono ai margini». L’individualismo è un problema evidenziato anche da Jonathan Zenti: «Si esalta la psicoterapia perché non abbiamo spazio ed energie per sostenere le difficoltà altrui. Parlare della cura evita di parlare della malattia».

In generale il fatto che si parli così tanto di psicoterapia, osserva Zenti, «è un brutto segno. Bisogna mettere in discussione le condizioni che ci portano alla psicoterapia, il tipo di vita che facciamo». Zenti racconta che un contributo fondamentale per la formazione del suo pensiero lo hanno dato Il giudizio psichiatrico di Giorgio Antonucci (uno dei padri dell’antipsichiatria) e il libro di Giuseppe Bucalo Dietro ogni scemo c’è un villaggio, che mette in relazione la malattia mentale con l’ambiente circostante: «Viviamo in un mondo stressante, iper competitivo. Il ricorso alla psicoterapia è un sintomo del fatto che siamo umanamente in difficoltà. Il risultato ottimale sarebbe che nessuno ne avesse più bisogno».

17 ottobre 2022 (modifica il 21 ottobre 2022 | 08:57)