Mezzo milione esatto di anni in purgatorio

"Abbassa il cielo e scendi" è un romanzo di Giorgio Boatti che racconta la storia del fratello Bruno, colpito dalla schizofrenia poco dopo il servizio militare, e il lungo percorso della loro tormentata fratellanza.

Daniella Ambrosino

Abbassa il cielo e scendi è una sorprendente invocazione a Dio tratta dal Salmo 144.
Sotto questo titolo Giorgio Boatti ci racconta la storia di suo fratello Bruno, colpito dalla schizofrenia poco dopo il servizio militare, e il lungo percorso della loro tormentata fratellanza.  Una storia che all’inizio ci trasporta nel pieno degli anni Cinquanta, in un paesino della Lomellina dove il fratello minore fa le elementari, mentre Bruno, il maggiore, è partito a fare le medie in seminario. La storia si snoda attraverso i passaggi salienti delle vicende italiane, fino a oggi: la guerra fredda, il boom economico, l’Asiatica, gli anni della contestazione, gli anni di piombo, la chiusura dei manicomi…
Una delle ragioni per cui questo romanzo cattura così intensamente i lettori è appunto che scorre sul doppio binario della storia che abbiamo attraversato, e di un ribollire senza storia, ma fittissimo di eventi cruciali e di rivelazioni, che si agita nella mente di Bruno.

Certamente per chi è nato intorno al 1948, come Giorgio Boatti, o per chi è ancora più giovane, è affascinante ritrovarsi – di nuovo o per la prima volta – in un’Italia in cui i bambini portano i calzoncini corti fino a quando gli spunta la barba e fanno i chierichetti, recitando preghiere in latino, in paesi contadini in cui il soprannaturale assume sorprendenti aspetti caserecci, e l’ostilità tra la chiesa e i comunisti è totale; un’Italia ancora così povera che un bambino poteva prendere per veri i suoni di una radio accesa e credere che casa sua fosse invasa da militari. Tutta la vivissima rievocazione dell’infanzia e dei suoi traumi è fondamentale nel libro, perché ci immerge in una dimensione straniata, dove i confini tra realtà e immaginazione sono incerti e spostati rispetto a quelli di un comune adulto dei nostri giorni: una dimensione assai simile a quella in cui Bruno ripiomberà a causa della malattia, per non uscirne mai più.

Da bambino e da giovanissimo Il fratello minore ammira molto il maggiore, lo interroga con soggezione, ma lo sente già irraggiungibile nelle sue sicurezze perentorie. Poi le loro vite divergono, sotto l’incalzare della malattia e degli interessi politici di Giorgio, prima militante di sinistra, poi giornalista; finché, alla morte della madre, ultimo filtro ancora rimasto tra loro, i due fratelli si ritrovano faccia a faccia e il più giovane non può più sfuggire, deve farsi carico del maggiore fino a quando la morte lo porterà via.

Boatti racconta questa storia per scorci, con una limpidezza sconcertante, che si tratti o delle vicissitudini tra pronto soccorso e case di riposo dei nostri giorni, o delle atmosfere remotissime dell’infanzia, dove morte e soprannaturale sono di casa per il chierichetto che accompagna il parroco nell’estrema unzione ai morenti.

La malattia mentale è un destino che folgora soltanto qualcuno di noi, ma quando colpisce un vicino, un fratello addirittura, è impossibile non restarne scottati. D’altra parte, la rottura con la comune razionalità spalanca un accesso su universi impensati, i cui bagliori arrivano, come stravaganze o come terrori, come minacce o imperativi categorici, anche a chi sta accanto al prescelto e lo costringono a confrontarsi continuamente con punti di vista straordinari che, pur apparendo manifestamente assurdi, scuotono dalle visioni abituali. Non conosco un altro romanzo che abbia saputo raccontare così da vicino luci e ombre della pazzia, se non Una strana fortuna di Luce d’Eramo, che raccontava la strenua lotta di una malata di mente, sotto lo sguardo della nipotina, per raggiungere una normalità che infine la spegne. Giorgio Boatti con una scrittura trasparente, tranquilla ma senza sconti, riesce a farci sentire sia la miseria che il calore umano delle persone coinvolte, e la loro stanchezza, la vana voglia di fuggire, insieme alle risorse inaspettate, e persino alle gioie, che possono intrecciarsi al dolore più fondo.

Del fatto che il suo sia un destino terribile, Bruno, lo schizofrenico, è perfettamente consapevole, tanto che, pur essendo credente e a suo modo cattolico, per tutta la vita tornerà sempre a chiedere al fratello l’eutanasia; ma alla fine questi considera che Bruno abbia in fondo avuto ciò che cercava, quando da ragazzino ha lasciato il paese per andare a farsi prete: anche se in forma di una vita “luminosamente miserabile” o “sciaguratamente sublime”. Perché Bruno è un ragazzo che “punta verso l’alto”, “tira dritto verso il cielo”.

Nella sua testarda quanto sconclusionata odissea Bruno non si allontana mai molto dal lembo di terra in cui è cresciuto, Pavia e dintorni, spingendosi occasionalmente fino a Padova e Milano. Dapprima lo rimandano a casa dal seminario, come “non adatto”; lui però non si scoraggia, è bravo a scuola, diplomato a pieni voti, subito assunto come ragioniere al Comune. Certo, è scontroso, taciturno, non ci sa fare con le ragazze che gli piacciono, passa sempre più tempo in casa a scrivere certi quaderni che poi chiude a chiave. Ma nessuno si aspetta che un giorno dia fuori di matto. Di brutto. E la diagnosi è una condanna, che gli apre la porta del manicomio e degli elettroshock.

A differenza di tanti altri malati, Bruno alla diagnosi non si ribella. Sente le voci, un numero straordinario di voci che lo assillano e lo frastornano. È consapevole che non succede a tutti, e che questo significa essere matti. Non si ribella alle medicine, che in quegli anni cominciano a permettere ai pazienti di uscire dai manicomi e tornare a vivere in famiglia. Le prende coscienziosamente, ma il fratello, che ingannato dal blando nome del Serenase un giorno ne assume per prova una dose minima, si accorge della morsa tremenda, della cappa di piombo, che queste sostanze esercitano sulle persone, per domare la loro follia.

Altro motivo per cui il lettore si appassiona è che Bruno, come tutti i matti, lavora di raziocinio, unisce i suoi deliri a considerazioni sensate, saltando senza preavviso dagli uni alle altre e viceversa, seguendo una logica imperscrutabile che tuttavia è una logica. E viceversa il mondo dei sani pullula di follie innumerevoli, dialoghi tra sordi, false credenze, di cui un esempio straordinario è la gigantesca messa in scena, durata anni, del fantomatico terzo Corpo d’Armata di stanza a Padova: attuata dai Servizi dell’esercito al fine di ingannare i sovietici  sulla reale consistenza delle forze armate nostrane, l’operazione ai nostri occhi sembra frutto di un’invenzione grottesca, e invece fu veramente attuata, con le migliori intenzioni e la massima serietà, fino al 1972, anno in cui viene chiusa lasciando montagne di carte indistruttibili perché stampigliate SEGRETISSIMO. Operazione delirante in cui, ironia della sorte, lo stesso Bruno, del tutto ignaro, fu coinvolto come militare di leva.

I capitoli del romanzo hanno titoli che sono versi, tratti dai Salmi e dal libro di Giobbe. Già questo basta a conferire al testo un andamento metafisico, in accordo con il protagonista Bruno che è perpetuamente a tu per tu con l’Altissimo; o meglio, animato dalla necessità assoluta di incontrare Dio, lo chiama costantemente a confronto. Impegnato in una contabilità precisa che gli assegna mezzo milione di anni di Purgatorio in sconto dei suoi peccati, Bruno è convinto che al termine della necessaria penitenza finalmente Lo vedrà coi suoi stessi occhi, faccia a faccia. E anche il suo agnostico fratello, avendo assistito per anni al costante confronto di Bruno con l’al di là, interrogato a bruciapelo: “Tu credi alla resurrezione dei morti?”, esita un attimo. “Mi viene l’idea assurda di sostenere che se siamo venuti da quel nulla assoluto che eravamo prima di essere generati, magari ci può capitare anche di rinascere. Chissà dove e come. Però perché escludere che ci sia un posticino anche per noi – o meglio, per quello che di noi rimane – lungo gli immensi spazi che contengono le stelle e le galassie?”
Ma la storia ci riporta a terra e all’universo psichiatrico, che Bruno e suo fratello attraversano per decenni, sperimentandone sulla pelle le speranze, le schiarite dei tempi di Basaglia, poi i regressi,  fino all’immensa tristezza, la desolazione odierna dei nostri servizi di salute mentale, in cui si è tornati al punto di partenza: il malato è un francobollo da appiccicare in una casella, nessuno si sogna di andarlo a trovare nel suo ambiente, tra le pareti in cui si svolge la sua vita, e i trattamenti  si fanno sempre più stereotipi, meccanici e impersonali, mentre la mente di Bruno si oscura sempre di più.

Il romanzo però non si chiude quando Bruno si spegne, al termine di un lungo e agitato declino: più l’autore ci pensa, meno gli sembra che la storia si concluda lì: “Qualcosa di essenziale rimane in sospeso”. Perciò fa un passo indietro, torna a uno di quei momenti in cui prima di precipitare tutto ancora oscilla, ed eventi inattesi possono ancora accadere, cambiando di segno a tutto quel che c’è stato prima. Solo che noi non ce ne accorgiamo (“la vita ci passa accanto ma il più delle volte non la riconosciamo. Non ci mettiamo al suo passo. La scorgiamo solo di spalle”). O ci sentiamo sospesi – senza poter andare oltre – su “un accadere che sembra sapere dove andare, senza bisogno che qualcuno lo pianifichi – o lo imponga”.  Se il senso profondo di ciò che accade ci sfugge, questa disposizione collaborativa verso un concatenarsi di eventi positivi, che a volte si incontra quasi miracolosamente, è alla nostra portata. “Forse c’è davvero un altro modo di abitare la vita […] in cui ognuno fa semplicemente la sua parte affinché le cose vadano al meglio. […] Spianando ostacoli. Chinandosi su chi, fragile o smarrito, inciampa, tendendogli la mano per rialzarlo.” Così, inaspettatamente, la dura storia raccontata da Boetti lascia una strana, durevole serenità.



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