L'università di Roma chiude le porte al papa. Ecco la lezione che non ha voluto ascoltare

Un manipolo di docenti e studenti ha costretto Benedetto XVI a cancellare la sua visita a "La Sapienza". Ma il papa professore non si è arreso: ha reso pubblico con un giorno d'anticipo il discorso che aveva scritto per l'occasione. Che è il seguito della memorabile lezione di Ratisbona, sulle questioni ultime della fede e della ragione

di Sandro Magister




ROMA, 17 gennaio 2008 – L'hanno accolto nella Moschea Blu di Istanbul. Gli hanno offerto la cattedra nell'università di Ratisbona. Lo attendono a New York per un discorso alle Nazioni Unite.

Ma l'università di Roma "La Sapienza" no. Gli è preclusa. Benedetto XVI ha dovuto rinunciare a leggere un discorso, giovedì 17 gennaio, nella principale università della diocesi di cui è vescovo. L'università che già aveva accolto le visite di Paolo VI nel 1964 e di Giovanni Paolo II nel 1991.

L'inaudita revoca della visita del papa è stata annunciata alle 5 della sera di martedì 15 gennaio da uno scarno comunicato della sala stampa vaticana.

Il giorno dopo, mercoledì 16, il cardinale segretario di stato ha così scritto al rettore dell'università che aveva invitato Benedetto XVI, il professor Renato Guarino:

"Essendo purtroppo venuti meno, per iniziativa di un gruppo decisamente minoritario di professori e di alunni, i presupposti per un'accoglienza dignitosa e tranquilla, è stato giudicato opportuno soprassedere alla prevista visita per togliere ogni pretesto a manifestazioni che si sarebbero rivelate incresciose per tutti.

"Nella consapevolezza tuttavia del desiderio sincero coltivato dalla grande maggioranza di professori e studenti di una parola culturalmente significativa, da cui trarre indicazioni stimolanti nel personale cammino di ricerca della verità, il Santo Padre ha disposto che le sia inviato il testo da lui personalmente preparato per l'occasione, [...] con l'auspicio che in esso tutti possano trovare spunti per arricchenti riflessioni ed approfondimenti".

E nel pomeriggio di quello stesso giorno "L'Osservatore Romano" è uscito con il testo completo della lezione che il papa avrebbe dovuto leggere il giorno dopo all'università "La Sapienza".

È una lezione che si ricollega a quella pronunciata da Benedetto XVI nell'università di Ratisbona il 12 settembre 2005. Sulla natura i compiti di una università, sul rapporto tra verità e libertà, tra fede e ragione, tra la filosofia, la teologia e gli altri rami del sapere, tra la Chiesa e il mondo contemporaneo.

Una lezione d'importanza capitale per comprendere il pensiero di papa Joseph Ratzinger. il suo incessante invito alla ragione "a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana".

Il testo originale del discorso, in lingua italiana, è nel sito del Vaticano:

> "È per me motivo di profonda gioia incontrare..."

Qui di seguito ne è riportato un ampio estratto, seguito da alcune informazioni sugli antefatti della mancata visita del papa all'università di Roma:


"Non vengo a imporre la fede ma a sollecitare il coraggio per la verità"

di Benedetto XVI


[...] Che cosa può e deve dire il papa nell'incontro con l'università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: Qual è la natura e la missione del papato? E ancora: Qual è la natura e la missione dell'università? [...]

Il papa è anzitutto vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all'apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell'intera Chiesa cattolica. [...] Ma questa comunità della quale il vescovo di Roma si prende cura — grande o piccola che sia — vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. [...] Così il papa parla come rappresentante di una comunità credente nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita. Parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l'intera umanità. In questo senso parla come rappresentante di una ragione etica.

Ma ora ci si deve chiedere: E che cosa è l'università? Qual è il suo compito? [...] Penso si possa dire che la vera, intima origine dell'università stia nella brama di conoscenza che è propria dell'uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità.

In questo senso si può vedere l'interrogarsi di Socrate come l'impulso dal quale è nata l'università occidentale. Penso ad esempio — per menzionare soltanto un testo — alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti? Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b-c). In questa domanda apparentemente poco devota — che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino — i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d'uscita da desideri non appagati; l'hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l'interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell'essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell'essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l'interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi, doveva così, nell'ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l'università.

È necessario fare un ulteriore passo. L'uomo vuole conoscere, vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra "scientia" e "tristitia": il semplice sapere, dice, rende tristi. E, di fatto, chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell'interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l'ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell'incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa.

Nella teologia medievale c'è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire — una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l'università medievale con le sue quattro facoltà presenta questa correlazione.

Cominciamo con la facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina.

Anche se era considerata più come "arte" che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell'universitas significava chiaramente che era collocata nell'ambito della razionalità, che l'arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all'ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio.

Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire, anche nella facoltà di giurisprudenza.

Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: Come s'individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all'essere buono dell'uomo?

A questo punto s'impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell'uomo. È la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell'opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell'umanità.

Jürgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti.

Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verità" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono — lo sappiamo — prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all'insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico.

Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos'è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla "ragione pubblica", come fa John Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, in base a ciò si rende evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità, della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d'interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza.

Torniamo così alla struttura dell'università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c'erano le facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull'essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità.

Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l'uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente. Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda — in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta.

Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall'altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità.

È merito storico di san Tommaso d'Aquino — di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico — di aver messo in luce l'autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s'interroga in base alle sue forze.

Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il "sì" alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita delle università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede.

Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La facoltà di filosofia che, come cosiddetta "facoltà degli artisti", fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa.

Non possiamo qui soffermarci sull'avvincente confronto che ne derivò. Io direi che l'idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza confusione e senza separazione".

"Senza confusione" vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero.

Insieme al "senza confusione" vige anche il "senza separazione": la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa. Ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni e in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all'umanità come indicazione del cammino.

Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell'umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un'istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all'interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. È vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una "comprehensive religious doctrine" nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere di più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi.

Ebbene, finora ho solo parlato dell'università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell'università e del suo compito. Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell'università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l'uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso.

In questo sviluppo si è aperta all'umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere. Ssono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell'uomo, e di questo possiamo solo essere grati.

Ma il cammino dell'uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale — per parlare solo di questo — è oggi che l'uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all'attrattiva dell'utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo.

Detto dal punto di vista della struttura dell'università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia, col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione — sollecita della sua presunta purezza — diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola.

Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e — preoccupata della sua laicità — si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma.

Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il papa nell'università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.

__________


Gli antefatti della mancata visita. E il pensiero di Benedetto XVI su Galileo


Due ore prima che la visita fosse cancellata, nel pomeriggio di martedì 15 gennaio, "L'Osservatore Romano" era uscito con una nota in prima pagina che faceva presagire la revoca e ne spiegava i perché.

L'autore della nota non era un ecclesiastico della curia vaticana, ma l'ebreo Giorgio Israel, professore ordinario di matematiche complementari in quella stessa università di Roma "La Sapienza" in cui il papa avrebbe dovuto recarsi.

Che fosse un intellettuale non cattolico a dare ragione dell'accaduto, sul giornale del papa, era emblematico di come Benedetto XVI guarda a ciò che dovrebbe essere una università: un "cosmo" della ragione nelle sue varie dimensioni e specializzazioni, chiamate ad ascoltarsi, a integrarsi, a criticarsi; un "cosmo" di cui anche le fedi sono parte viva, al pari delle scienze, ciascuna con la sua peculiarità.

Ma così non hanno voluto che fosse gli oppositori della visita del papa: un manipolo di professori, 67 su un totale di 4500, e poche decine di studenti, su un totale di 135 mila. Ai quali ha dato però man forte una frazione della cultura laica italiana, anch'essa di dimensioni minime ma molto presente e rumorosa sui media.

Ecco dunque che cosa ha scritto il professor Israel su "L'Osservatore Romano" stampato nel pomeriggio del 15 gennaio:


QUANDO RATZINGER DIFESE GALILEO A "LA SAPIENZA"

di Giorgio Israel



È sorprendente che quanti hanno scelto come motto la celebre frase attribuita a Voltaire — "mi batterò fino alla morte perché tu possa dire il contrario di quel che penso" — si oppongano a che il papa tenga un discorso all'università di Roma "La Sapienza". È tanto più sorprendente in quanto le università italiane sono un luogo aperto ad ogni tipo di intervento ed è inspiegabile che al papa soltanto sia riservato un divieto d'ingresso.

Che cosa di tanto grave ha spinto a mettere da parte la tolleranza volterriana? Lo ha spiegato uno degli oppositori del papa, il professor Marcello Cini, nella lettera dello scorso novembre in cui ha condannato l'invito fatto dal rettore dell'università Renato Guarini a Benedetto XVI. Quel che gli appare "pericoloso" è che il papa tenti di aprire un discorso tra fede e ragione, di ristabilire una relazione fra le tradizioni giudaico-cristiana ed ellenistica, di non volere che scienza e fede siano separate da un'impenetrabile parete stagna.

Per Cini questo programma è intollerabile perché sarebbe in realtà dettato dall'intento perverso – che Benedetto XVI coltiverebbe fin da quando era "capo del Sant'Uffizio" – di "mettere in riga la scienza" e ricondurla entro "la pseudo-razionalità dei dogmi della religione".

Inoltre, secondo Cini, il papa avrebbe anche prodotto l'effetto nefasto di suscitare veementi reazioni nel mondo islamico. Dubitiamo però che Cini chiederebbe a un rappresentante religioso musulmano di pronunziare un "mea culpa" per la persecuzione di Averroè prima di mettere piede a "La Sapienza". Siamo anzi certi che lo accoglierebbe a braccia aperte in nome dei principi del dialogo e della tolleranza.

L'opposizione alla visita del papa non è quindi motivata da un principio astratto e tradizionale di laicità. L'opposizione è di carattere ideologico e ha come bersaglio specifico Benedetto XVI in quanto si permette di parlare di scienza e dei rapporti tra scienza e fede, anziché limitarsi a parlare di fede.

Anche la lettera contro la visita firmata da un gruppo di professori di fisica è ispirata da un sentimento di fastidio per la persona stessa del papa, presentato come un ostinato nemico di Galileo.

Essi rimproverano al papa di aver ripreso — in una conferenza tenuta proprio a "La Sapienza" il 15 febbraio 1990 (cfr J. Ratzinger, "Wendezeit für Europa? Diagnosen und Prognosen zur Lage von Kirche und Welt", Einsiedeln-Freiburg, Johannes Verlag, 1991, pp. 59 e 71) — questa frase del filosofo della scienza Paul Feyerabend: "All'epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto".

Non si sono preoccupati però di leggere per intero e attentamente quel discorso dell'allora cardinale Ratzinger. Esso aveva come tema la crisi di fiducia nella scienza in sé stessa e ne dava come esempio il mutare di atteggiamento sul caso Galileo. Se nel Settecento Galileo è l'emblema dell'oscurantismo medioevale della Chiesa, nel Novecento l'atteggiamento cambia e si sottolinea come Galileo non avesse fornito prove convincenti del sistema eliocentrico, fino all'affermazione di Feyerabend — definito da Ratzinger come un "filosofo agnostico-scettico" — e a quella di Carl Friedrich von Weizsäcker che addirittura stabiliva una linea diretta tra Galileo e la bomba atomica.

Queste citazioni non venivano usate dal cardinale Ratzinger per cercare rivalse e imbastire giustificazioni. "Sarebbe assurdo – disse – costruire sulla base di queste affermazioni una frettolosa apologetica. La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità".

Piuttosto, le citazioni venivano addotte come prova di quanto "il dubbio della modernità su se stessa abbia attinto oggi la scienza e la tecnica".

In altri termini, il discorso del 1990 può ben essere considerato, per chi lo legga con un minimo di attenzione, come una difesa della razionalità galileiana contro lo scetticismo e il relativismo della cultura postmoderna.

Del resto chi conosca un minimo i recenti interventi di Benedetto XVI sull'argomento sa bene come egli consideri con "ammirazione" la celebre affermazione di Galileo che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico.

Come è potuto accadere che dei docenti universitari siano incorsi in un simile infortunio? Un docente dovrebbe considerare come una sconfitta professionale l'aver trasmesso un simile modello di lettura disattenta, superficiale e omissiva che conduce a un vero e proprio travisamento.

Ma temo che qui il rigore intellettuale interessi poco e che l'intenzione sia quella di menar fendenti a ogni costo. Né c'entra la laicità, categoria estranea ai comportamenti di alcuni dei firmatari, che non hanno mai speso una sola parola contro l'integralismo islamico o contro la negazione della Shoah. È emersa in questa vicenda una parte di cultura laica che non ha argomenti ma demonizza. Non discute come la vera cultura laica, ma crea mostri. In questo senso, questa minaccia contro il papa è un evento drammatico, culturalmente e civilmente.

__________


A corredo di quanto scritto dal professor Israel, va notato che la conferenza pronunciata dall'allora cardinale Ratzinger all'università di Roma "La Sapienza" il 15 febbraio 1990, con i passaggi relativi a Galileo Galilei, era la replica di una sua precedente conferenza letta a Rieti il 16 dicembre 1989. Che fu ancora successivamente replicata dallo stesso Ratzinger, con i relativi adattamenti, a Madrid il 24 febbraio 1990 e a Parma il 15 marzo dello stesso anno.

Il testo della conferenza fu poi raccolto in un volume edito nel 1991 in Germania da Johannes Verlag e nel 1992 in Italia dalle Edizioni Paoline, con il titolo "Svolta per l'Europa? Chiesa e modernità nell'Europa dei rivolgimenti".

Trovi qui riprodotto il passaggio del libro con le osservazioni di Ratzinger a proposito del caso Galileo:

> "Nell'ultimo decennio..."

Sul caso Galileo, la posizione ufficiale della Chiesa di Roma è tuttora quella espressa da Giovanni Paolo II in questo suo discorso del 31 ottobre 1992 alla Pontificia Accademia delle Scienze:

> "La conclusione della sessione plenaria..."

Da papa, Benedetto XVI non è mai intervenuto direttamente sul tema. Ma resta di straordinario interesse, per capire il suo pensiero, la risposta che egli diede in piazza San Pietro, il 6 aprile 2006, a uno studente liceale di 17 anni che gli aveva chiesto "come armonizzare scienza e fede".

Ecco la risposta del papa:


"IL GRANDE GALILEO HA DETTO CHE DIO..."

di Benedetto XVI



Il grande Galileo ha detto che Dio ha scritto il libro della natura nella forma del linguaggio matematico. Lui era convinto che Dio ci ha donato due libri: quello della Sacra Scrittura e quello della natura. E il linguaggio della natura – questa era la sua convinzione – è la matematica, quindi essa è un linguaggio di Dio, del Creatore.

Riflettiamo ora su cos’è la matematica: di per sé è un sistema astratto, un’invenzione dello spirito umano, che come tale nella sua purezza non esiste. È sempre realizzato approssimativamente, ma – come tale – è un sistema intellettuale, è una grande, geniale invenzione dello spirito umano. La cosa sorprendente è che questa invenzione della nostra mente umana è veramente la chiave per comprendere la natura, che la natura è realmente strutturata in modo matematico e che la nostra matematica, inventata dal nostro spirito, è realmente lo strumento per poter lavorare con la natura, per metterla al nostro servizio, per strumentalizzarla attraverso la tecnica.

Mi sembra una cosa quasi incredibile che una invenzione dell’intelletto umano e la struttura dell’universo coincidano: la matematica inventata da noi ci dà realmente accesso alla natura dell’universo e lo rende utilizzabile per noi. Quindi la struttura intellettuale del soggetto umano e la struttura oggettiva della realtà coincidono: la ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura sono identiche. Penso che questa coincidenza tra quanto noi abbiamo pensato e il come si realizza e si comporta la natura, siano un enigma e una sfida grandi, perché vediamo che, alla fine, è “una” ragione che le collega ambedue: la nostra ragione non potrebbe scoprire quest’altra, se non vi fosse un’identica ragione a monte di ambedue.

In questo senso mi sembra proprio che la matematica – nella quale come tale Dio non può apparire – ci mostri la struttura intelligente dell’universo. Adesso ci sono anche teorie del caos, ma sono limitate, perché se il caos avesse il sopravvento, tutta la tecnica diventerebbe impossibile. Solo perché la nostra matematica è affidabile, la tecnica è affidabile. La nostra scienza, che rende finalmente possibile lavorare con le energie della natura, suppone la struttura affidabile, intelligente della materia. E così vediamo che c’è una razionalità soggettiva e una razionalità oggettivata nella materia, che coincidono. Naturalmente adesso nessuno può provare – come si prova nell’esperimento, nelle leggi tecniche – che ambedue siano realmente originate in un’unica intelligenza, ma mi sembra che questa unità dell’intelligenza, dietro le due intelligenze, appaia realmente nel nostro mondo. E quanto più noi possiamo strumentalizzare il mondo con la nostra intelligenza, tanto più appare il disegno della Creazione.

Alla fine, per arrivare alla questione definitiva, direi: Dio o c’è o non c’è. Ci sono solo due opzioni. O si riconosce la priorità della ragione, della Ragione creatrice che sta all’inizio di tutto ed è il principio di tutto – la priorità della ragione è anche priorità della libertà – o si sostiene la priorità dell’irrazionale, per cui tutto quanto funziona sulla nostra terra e nella nostra vita sarebbe solo occasionale, marginale, un prodotto irrazionale: la ragione sarebbe un prodotto della irrazionalità. Non si può ultimamente “provare” l’uno o l’altro progetto, ma la grande opzione del cristianesimo è l’opzione per la razionalità e per la priorità della ragione. Questa mi sembra un’ottima opzione, che ci dimostra come dietro a tutto ci sia una grande Intelligenza, alla quale possiamo affidarci.

Ma il vero problema contro la fede oggi mi sembra essere il male nel mondo: ci si chiede come esso sia compatibile con questa razionalità del Creatore. E qui abbiamo bisogno realmente del Dio che si è fatto carne e che ci mostra come Egli non sia solo una ragione matematica, ma che questa ragione originaria è anche Amore. Se guardiamo alle grandi opzioni, l’opzione cristiana è anche oggi quella più razionale e quella più umana. Per questo possiamo elaborare con fiducia una filosofia, una visione del mondo che sia basata su questa priorità della ragione, su questa fiducia che la Ragione creatrice è amore, e che questo amore è Dio.



__________
17.1.2008 

rss.gif