di Mario Matteini
[Quinto episodio della serie “La password nella storia”]
Post pubblicati:
1. La lingua che discrimina
2. La parola d’ordine da Ificrate a Lamarmora
3. Le societá segrete dell’ottocento
4. L’inutile strage della Grande guerra
5. Parole di liberazione
6. Le spie della guerra fredda | 6.1 La temeraria Martha | 6.2 Polyakov, la talpa gigante al Cremlino | 6.3 Lost in translation
7. Come ai tempi della Guerra fredda
8. Dalla realtà alla finzione
9. Usare bene la password
Buongiorno e buon fine settimana. Oggi una materia calda trattata con levità.
Tra i molti sinonimi della Guerra di liberazione c’è anche quello di guerra di popolo e quando c’è di mezzo il popolo non può che esserci l’esplosione di un immaginario grande e spontaneo. Un talento collettivo che si riversa anche nella lingua.
L’immaginario popolare di quel periodo, però, si è trovato smorzato nel fosco sfondo di una nazione che è diventato teatro di una guerra civile combattuta con ardore ma anche con una serpeggiante riluttanza e una certa acquiescenza.
Un aspetto quest’ultimo che esce bene da un film crudo, asciutto e vero come Roma città aperta (su Chili). Io lo vedo nella scena della fucilazione di Don Pietro dove il plotone è italiano, ma il colpo di grazia lo sferra l’ufficiale tedesco, scandalizzato dalla volutamente pessima mira degli italiani. Si sa però che nella sceneggiatura originale di Rossellini, Amidei, Fellini e altri la scena finiva in ben altro modo. Che siano stati Degasperi e Togliatti a rovesciarla? E hanno fatto bene ad andarci piano.
A me piace associare quei venti mesi di cambiamenti, di rotture e di arieggiamento a un capolavoro di parole, nel quale c’è ben poca sudditanza all’agiografia, e del quale, inspiegabilmente, non si parla quasi più.
Parlo de Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio che nella sua arsura e anche nel ping-pong linguistico tra idioma nazionale e inglese trasuda novità, modernità, autenticità e anticonformismo. Per dire: Fenoglio prima pensava e scriveva in inglese e poi traduceva in italiano. Quale futuro più di questo può esserci per la nostra generazione Z?
Ma lasciamo da parte queste divagazioni storiche e letterarie, che rischiano di smuovere qualche discussione, per alleggerirci con la levità del nostro Mario Matteini che continua a scandagliare nei fondali della storia.
Buona lettura!
Bisogna andar
Nel corso della guerra di liberazione dal nazifascismo una parola d'ordine poteva essere decisiva per l'attuazione di azioni di guerriglia, come accadde nel giugno del 1944 per l'attacco al forte Tombion, o nell'ottobre dello stesso anno per l'incursione nella caserma della guardia nazionale repubblicana di Vaprio d’Adda.
Il forte di Tombion era il primo di una serie di fortificazioni di confine costruite negli anni Ottanta dell'Ottocento, dopo l'annessione del Veneto al Regno d'Italia, sulla via che dalla Valsugana conduce a Bassano del Grappa.
Qui i tedeschi avevano depositato una grande quantità di esplosivo, da impiegare per la costruzione di una linea difensiva. I partigiani decidono un’azione di sabotaggio. La notte fra il 6 e il 7 giugno del 1944 un commando partigiano, guidato da Paride Brunetti, “Bruno”, comandante della brigata partigiana “Antonio Gramsci”, muove verso il forte.
Trento / Trieste… oops
Un alpino in servizio al forte aveva fornito loro la parola d’ordine.
Arrivati al posto di guardia, Bruno e un compagno si avvicinano alle due sentinelle e all’intimazione dell’Alt, rispondono con la parola “Trento”. È quella giusta, le sentinelle infatti rispondono “Trieste” e lasciano passare. Vengono immediatamente disarmate e il resto della pattuglia può entrare nel forte.
Agli alpini, colti di sorpresa nel sonno, non resta che arrendersi. L’esplosivo depositato nella polveriera (23 quintali) viene trasportato nella vicina galleria ferroviaria e fatto esplodere.
L’esplosione è violentissima: trenta metri di galleria sono scoperchiati, strada e ferrovia resteranno interrotte per cinque giorni.
Si trattò di una delle più rilevanti azioni di sabotaggio compiute durante la Resistenza italiana.
Nel 1947 Paride Brunetti, “Bruno”, venne insignito della della Medaglia d'argento al valor militare dall'allora Presidente del Consiglio dei ministri Alcide Degasperi.
Fischiando sotto la pioggia…
Per l’incursione nella caserma della guardia nazionale repubblicana di Vaprio d’Adda vennero impiegate quattro squadre.
Una di queste, formata da partigiani travestiti da fascisti, aveva il compito di bloccare la pattuglia della guardia nazionale repubblicana.
Questa, a causa della forte pioggia, si era rifugiata in un’osteria. Per farla uscire allo scoperto, un partigiano cercò di attirare l’attenzione, mettendosi a fischiettare fuori dal locale.
I fascisti uscirono e vennero immediatamente circondati dai partigiani, che li disarmarono e li costrinsero a rivelare la parola d’ordine per entrare nella caserma.
I partigiani, insieme ai fascisti disarmati, si presentarono alla caserma. La sentinella, udita la parola d’ordine, aprì e i partigiani poterono agevolmente costringere alla resa i militi fascisti, colti di sorpresa.
Il bottino dell’attacco: un mitragliatore Breda 30, con 4 cassette di munizioni, una dozzina di moschetti, 6 mitra, 2 rivoltelle con relativo munizionamento, zaini, coperte e anche le divise dei repubblichini.
L’emozione di Gina
Una delle circostanze in cui era necessaria la parola d’ordine era quando due partigiani si dovevano incontrare per scambiarsi messaggi, medicinali, stampa clandestina e anche materiale bellico, e si doveva essere certi della loro appartenenza all’organizzazione.
In questo servizio di staffetta erano spesso impiegate le donne. Una di queste, Virginia Manaresi, “Gina”, ci racconta con orgoglio e commozione una delle sue esperienze:
Un’emozione nuova la provai pure la prima volta che usai la parola d’ordine. Arrivò Wilson e mi disse: «Gina, devi far recapitare un messaggio urgente, devi andare alla Sterlina, là ci sarà una persona che ti aspetta». Chiesi come avrei fatto a conoscerla se non sapevo almeno se era uomo o donna. Mi informò del luogo esatto dove mi dovevo trovare e mi trasmise la parola d'ordine. Partii come un razzo per arrivare in tempo e vi arrivai sudata e senza fiato; ma la parola d’ordine mi uscì di bocca subito e con tanta dolcezza che ne rimasi sinceramente commossa. Dopo vario tempo seppi che il mio messaggio era arrivato in tempo per salvare una decina di uomini da un rastrellamento tedesco.
Super “Mario”
Da Giuseppe Bacchilega, “Drago”, comandante di una formazione partigiana di Medicina, in provincia di Bologna, apprendiamo invece come la conoscenza fortunosa di una parola d’ordine consentì al suo gruppo di sfuggire a un attacco nazifascista.
Siamo nell’ottobre del 1944. La formazione di “Drago” ha raggiunto Bologna, per partecipare alla liberazione della città, che si riteneva fosse imminente, visto che il fronte aveva raggiunto la linea gotica.
Sono sistemati in un fabbricato a porta delle Lame, vicino al canale Cavaticcio, insieme a un altro gruppo di partigiani. Il 7 novembre vengono scoperti e accerchiati dai nazifascisti. La notte fra il 7 e l’8 decidono di tentare una sortita.
Lanciammo diverse bombe fumogene per coprire la ritirata e dal sotterraneo, attraverso una porticina, ci calammo nel canale di via del Porto. Avevamo con noi tutti i feriti più leggeri, e portavamo a spalla i più gravi. Stavamo guazzando nel canale, facendo attenzione a non fare rumori, nascondendoci nelle macchie più folte dei canneti, allorché da una sponda una pattuglia fascista chiese perentoriamente la parola d’ordine. Restammo immobili, certi di essere stati scoperti; quando, dalla sponda opposta, il capo di un'altra pattuglia di fascisti, credendo che l’intimazione fosse stata rivolta a lui, rispose «Mario». «Avanti» risposero gli uomini della prima pattuglia e noi proseguimmo nella nostra faticosa marcia. Sbucammo finalmente in piazza Umberto I e lì non fu difficile superare un posto di blocco fascista, dopodiché la strada fu libera e ci mettemmo in salvo.
Si mangia quando “il vento è spento”
Parole d’ordine particolari erano quelle trasmesse da Radio Londra, che comunicava messaggi indirizzati alle varie unità combattenti contro il nazifascismo. Le trasmissioni iniziavano con le prime note della Quinta sinfonia di Beethoven.
Tre note brevi e una lunga, come tre punti e una linea, che nell’alfabeto Morse corrispondono alla lettera “V”, le due dita alzate in segno di vittoria da Winston Churchill.
Si trattava di messaggi formulati dagli organi militari e consegnati alla radio per la lettura. Erano frasi come “La gallina ha fatto l’uovo”, “La mucca non dà latte”, “Le scarpe mi stanno strette”, “Felice non è felice”.
Solo i destinatari erano in grado di decodificarli. Servivano per annunciare movimenti di truppe, arrivo di viveri, lancio di armi. L’invito a un gruppo partigiano a tenersi pronto a un’operazione poteva ad esempio essere annunciato con “È cessata la pioggia”, l’imminente arrivo di rifornimenti con “Il vento è spento.”
I messaggi che indicavano il lancio di armi generalmente erano due: il primo per indicare la zona e il secondo l’ora del lancio.
26 x 1 = attacco
Meno poetico, ma ugualmente gradito il messaggio che dette inizio all’insurrezione di Torino.
È il 24 aprile, lo sciopero generale del 18 ha avuto un significativo successo, nonostante le misure repressive disposte dal federale fascista.
La tensione è grande, perché due colonne tedesche, affiancate da truppe repubblichine, si stanno avvicinando alla città, ma anche perché i comandi alleati vorrebbero ritardare l’entrata in azione dei partigiani. Diverso è l’orientamento del Comitato di Liberazione Nazionale.
La sera del 24, il Comando militare regionale piemontese, appreso che Genova è insorta e che le truppe alleate hanno passato il Po, decide di rompere ogni indugio e di passare all’azione.
L’ordine alle formazioni partigiane viene impartito con un telegramma che inizia con la frase “ALDO DICE 26 x 1”.
Sono la data e l’ora dell’inizio della insurrezione di Torino: il 26 aprile alle una.
Il piano da attuare l’E27 (Emergenza 27, elaborato nell'autunno precedente). Tutte le macchine devono essere attentamente controllate per individuare i fascisti in fuga, necessario “assicurare viabilità forze alleate su strade Genova-Torino et Piacenza-Torino”.
Tra la fine di aprile e gli inizi di maggio arrivarono gli alleati a liberazione ormai ultimata.
Prima di andare
Gli ecoponti francesi. Ogni anno sulle autostrade europee 29 milioni di animali sono travolti e uccisi con conseguenze anche per gli investitori. La storia non va molto a genio ai francesi che hanno costruito ben 119 écoponts pensati per consentire alla fauna selvatica di attraversare in sicurezza le grandi arterie di comunicazione. La Francia ha costruito il primo rudimentale cavalcavia autostradale di questo tipo nel 1960. Oggi sono realizzati come delle vere e proprie opere di ingegneria paesaggistica dal costo di circa 4milioni di euro ciascuna. Un monitoraggio ha rilevato che tra il 2011 e il 2015, mediamente ogni anno, i ponticelli sono stati attraversati da 1.086 cervi, 150 cinghiali, 104 caprioli, 48 volpi, otto tassi, quattro donnole, un riccio e un lupo. I mammiferi e i rettili più piccoli preferiscono i sottopassaggi autostradali utilizzati, sempre dal 2011 al 2015, da 189 tassi, 37 donnole, 37 genette e cinque salamandre, tra gli altri. Bene anche tedeschi con 80 attraversamenti che hanno salvato la vita a molti lupi grigi. (Fonte: “The Economist”).
La seconda volta viene meglio. Due università americane hanno calcolato quanto tempo di vita di una persona se ne va irrimediabilmente in attività inutili sul posto di lavoro; tempo che i ricercatori hanno chiamato WTF (Weighted Total Futility/Totale ponderato di futilità). I risultati sono incredibili. Correggere i propri errori di digitazione costa 180 giorni di vita. Loggarsi 145 giorni. Quattro mesi se ne vanno cercando di ricordare la password, correggerne una errata o reimpostarla. Altrettanti se ne vanno aspettando un qualche feedback del sistema. Solo sei mesi di vita per cancellare email non desiderate, pensavo di più. Il tempo che è servito a Shakespeare per scrivere Re Lear serve al lavoratore d’ufficio per cambiare font o margini a un documento già pronto. Eliminare gli annunci pop-up e cercare di mettere in pausa i video in riproduzione automatica assorbe il tempo che si sarebbe potuto dedicare a imparare a lavorare all’uncinetto o a visitare Machu Picchu. Rifare un lavoro per disattenzione nel salvarlo, crash del sistema o della rete, o altro imprevisto è tutta una particolare categoria di sofferenze. Consoliamoci con il detto cinese che la seconda volta viene meglio. (Fonte: “The Economist”).