Newsletter #307 | 14 ottobre 2022

I bambini adulti, in mezzo agli adulti bambini

Sono giorni di luce intermittente. Quella elettrica, perché bisogna risparmiarla. Quella del sole, che va e viene assecondando i capricci dell'autunno. Quella dentro di noi, sospesa tra (illogiche) speranze e (realistiche) paure. Ma non spegniamola. Teniamola accesa finché ce n'è. In questo inverno anche il minimo barbaglio di luce ci sarà utile. Siamo la redazione di Futura. Scriveteci: Davide (dacasati@rcs.it), Renato (rbenedetto@rcs.it), Andrea Federica (andreaf.decesco@gmail.com) e Roberta (rscorranese@rcs.it).

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Illustrazione di Susanna Gentili

percorsi

Nessuno si salva da solo

Andrea Federica de Cesco

Ho 15 anni, sono nello studio di un famoso psicoterapeuta. Ha gli occhi azzurri, di un azzurro intensissimo. Mi guarda, sorride. Mi sento a disagio.
-Devi imparare a volerti bene.
Mi rimprovera con voce carezzevole. Il mio disagio aumenta.
-Prova a viziarti un po'. Goditi il tempo sotto la doccia calda, per esempio…
Anticipo mentalmente la sua frase successiva: «...Concediti qualche dolcetto».
-...Prima di andare a dormire concediti un cioccolatino.
Vorrei scappare.

Succede in ogni seduta. A un certo punto il famoso psicoterapeuta mi propina alcune delle frasi che ho già letto nei suoi libri. Faccio sempre così quando i miei mi mandano da qualcuno abbastanza noto da aver scritto un libro: leggo tutto ciò che ha pubblicato. Ho iniziato per curiosità. Poi è diventato un mio test personale nei confronti dello psicoterapeuta di turno: se mi dice qualcosa che ha scritto per i suoi ipotetici lettori sconosciuti, allora vuol dire che non sta badando davvero a me. Vuol dire che pensa che sia «una qualunque».
Ma io voglio essere vista, riconosciuta.

***

Provai vari psicoterapeuti. Una non diceva nulla: mi chiedeva di parlare, e lei si limitava ad ascoltare in silenzio. E io allora inventavo. Mi osservava concentrata, severa quasi; ogni tanto annuiva. Non ero sicura che mi ascoltasse davvero. Un'altra mi faceva descrivere quello che vedevo in strane macchie nere (nient'altro che strane macchie nere, per lo più). Divertente, tutto sommato, ma non ne capivo l'utilità.

Il mio più caro amico del liceo era fragile e inquieto quanto me. Durante le autogestioni ci sedevamo sul pavimento gelido dell'aula magna del Parini, dietro i pesanti tendoni color porpora sul fondo, e parlavamo della vita e della morte, di quanto stessimo male, di quanto stessimo bene. Anche lui faceva psicoterapia, ma di quello non parlavamo quasi mai.

A un certo punto iniziai a bigiare le sedute. Non è che bigiassi proprio: telefonavo, mi scusavo («Non posso venire all'appuntamento, mi spiace. Ho avuto un imprevisto»). Ai miei non lo dicevo. Nell'ora che avrei dovuto trascorrere in uno studio in qualche elegante appartamento di Milano, dopo scuola, pranzavo da sola in un tristissimo ristorante all'ingresso della metropolitana, con la lentezza di chi vuole riempire il tempo.

I soldi erano uno dei nodi del complicato divorzio dei miei genitori. Sapevo che andare in psicoterapia richiedeva una spesa importante, ed era dunque una possibile causa di conflitto. Quando i miei mi scoprirono decisero di non insistere, tanto ero un caso disperato (non perché stessi morendo, eh: semplicemente sono sempre stata parecchio testarda).

Insomma, la psicoterapia per me non funzionava. E credevo che, tutto sommato, non mi servisse. Probabilmente non ero ancora pronta a uscire dal mio guscio.

Un paio di anni dopo la seduta con il tizio con gli occhi azzurri, avevo superato da sola la fase più delicata dei problemi per cui in psicoterapia avevano deciso di mandarmici.
Avevo capito cosa si prova a non voler più vivere.
Avevo capito anche che a me vivere piaceva.
Non volevo smettere, nonostante il dolore.
Non è che il dolore fosse scomparso. Era, è legato in gran parte al fatto di essere ed essere stata una bambina adulta in mezzo ad adulti bambini (grazie, Francesca Mannocchi, per questa espressione: «bambina adulta»).
E da brava bambina adulta mi sono arrangiata. Ho trovato un modo, sbilenco ma abbastanza efficace, per auto gestire i miei dubbi e le mie paure, le paranoie e tutto il resto.
Quel dolore ho imparato a farlo scomparire in fretta, ogni volta che si presenta.

Non penso sia proprio un meccanismo di rimozione. Mi è capitato di intervistare una ragazza il cui fratello si era tolto la vita. Mi aveva raccontato di avere iniziato a stare meglio quando era riuscita a «lasciare andare».

Ecco, quello che faccio è questo: lascio andare - la rabbia, il dolore.

Evito che sedimentino, che si trasformino in rancore (un sentimento che ho scovato nei tormenti di persone a me vicine e che mi terrorizza). Rimane solo la tristezza, una patina di nostalgia. Ci convivo. Ma soprattutto dimentico, veloce veloce. Scaccio le lacrime, sorrido, minimizzo.

Da brava bambina adulta addestrata a chiedere il meno possibile, a evitare di scatenare litigi o malumori, mi sono ritrovata vittima di uno spauracchio forgiato dalle mie stesse paranoie. Lo Spauracchio mi intimava di «cavarmela da sola», e mi impediva di concedermi dei «lussi». Tipo il parrucchiere: per anni ne ho fatto a meno (ho visto i tutorial su YouTube: basta legare i capelli bagnati in una coda giusto sopra la fronte, mettersi a testa in giù e tagliare qualche centimetro - zac!).
Anche la psicoterapia per me rientrava nel superfluo. Come per tutto il resto, ero convinta di poter arrangiarmi. Niente a che fare con i pregiudizi: non ci ho mai visto nulla di male nell'andare da psicoterapeuti o psichiatri. Ma l'idea di rimanere invischiata potenzialmente per anni in qualche «percorso» potenzialmente costoso per imparare un nuovo modo per smaltire il mio carico di dolore mi sembrava, appunto, un lusso rinunciabile.

So che suonerà stupido, ma è stato il titolo di un libro a farmi realizzare che nella mia decisione di arrangiarmi in fatto di salute mentale c'era qualcosa che non andava. Il libro è «Nessuno si salva da solo» di Margaret Mazzantini, che racconta una tormentata storia d'amore tra due tormentatissime persone. Ci ho rimuginato per parecchio tempo. Ho ragionato sulla costellazione di relazioni che negli anni ho costruito. Gli amici e le amiche di una vita, gli amici e le amiche nuove, i fidanzati che ho scelto - che mi hanno scelto. Se è vero che tendo ad arrangiarmi, è vero anche che inconsciamente ho sempre fatto in modo di avere una rete di sostegno. Non chiedo aiuto, ma so a chi potrei chiederlo se non potessi farne a meno.

Poi è scoppiata la pandemia.
Tra dicembre 2020 e gennaio 2021 causa Covid ho dovuto trascorrere un mese chiusa nella mia stanza a casa di mia madre, da sola. Era da un po' che la psicoterapia era diventata un argomento di conversazione al pari delle serie tv, almeno all'interno di certe bolle di cui faccio o ho fatto in qualche modo parte. E sui social si era trasformata in un contenuto, al pari della biuti rutìn o della crisi climatica.

Un'influencer che seguivo e seguo tuttora, Daniela Collu (@stazzitta), aveva parlato su Instagram di un servizio offerto da Gli Psicologi Online durante la cosiddetta emergenza sanitaria: tre sedute di psicoterapia in videochiamata. Gratuite.
Morti, paura del contagio e restrizioni varie hanno fatto peggiorare ancora di più il già precario stato di salute mentale di una buona fetta della popolazione mondiale. E così sono spuntate varie realtà con l'obiettivo specifico di arginare il malessere di schiere di persone sempre più isolate, fisicamente e mentalmente.

Quel «gratuite» mi ha convinto.
Ho provato, e ho trovato una psicoterapeuta che mi ha smascherato, e riconosciuto.
L'armatura dello scetticismo era stata scalfita, lo Spauracchio era meno spavaldo. Le ho raccontato tutto quello che negli anni avevo «lasciato andare», lei mi ha suggerito di proseguire, di scavare ancora.

Ho contattato un consultorio famigliare della Regione Lombardia. Per non rimanere intrappolata anche quella volta nelle grinfie dello Spauracchio, avevo deciso di approcciare la psicoterapia come approccio di solito qualsiasi visita medica: attraverso il servizio pubblico, armata di pazienza zen. Con mia grande sorpresa non ho dovuto aspettare troppo: nel giro di un paio di mesi ho iniziato il famoso percorso, con una psicologa mia coetanea. A luglio le sedute gratuite sono terminate. Solo che il percorso non era finito: era come se avessi lasciato un puzzle a metà. E questo era evidente non solo per la psicologa, ma pure per me.

La psicologa mi ha scritto dopo l'estate, proponendomi di continuare a pagamento. Ho rinunciato, di nuovo intabarrata nella mia armatura. L'ho ricontattata io mesi dopo, quando credevo che il dolore per la morte di mio nonno mi avrebbe ucciso. La sua risposta mi ha fatto capire che - come sospettavo - non era la persona giusta per me. E a pensarci bene la paura di non trovare «la persona giusta per me» (dove per persona qui intendo psicoterapeuta) era, è sempre stata uno dei più grandi alleati dello Spauracchio. Insomma, ancora una volta ero bloccata. La novità però era che uno spaesamento così forte come quello non lo avevo mai provato.

Nello stesso periodo, la scorsa primavera, stavo lavorando a un pezzo proprio sulla psicoterapia. Volevo capire quando, come e perché si fosse iniziato a parlarne così tanto, soprattutto sui social. Se la percezione della psicoterapia e della salute mentale fosse davvero cambiata, e come. E poi quale fosse il ruolo della generazione Z in questo ipotetico cambiamento. Per rispondere alle varie domande mi sono messa a studiare. E soprattutto a intervistare tutte le persone che mi sembravano avere qualcosa di interessante da dire. Così, intervista dopo intervista, il mio modo di guardare alla psicoterapia un po' è cambiato.

Una frase che mi è rimasta impressa me l'ha detta Daniela Collu: «Persone felici, equilibrate e consapevoli fanno una società felice, equilibrata e consapevole. La salute mentale degli altri è una cosa da cui il resto del mondo trae vantaggio e fortuna». Si tende a pensare che fare psicoterapia sia importante per noi stessi. Riflettere invece sul fatto che sciogliere alcuni dei miei casini interiori potrebbe evitare che io, inavvertitamente, con questi spigolosi casini faccia male a qualcuno di caro è stato illuminante (e mi ha fatto pensare agli effetti su me stessa della mancata psicoterapia degli Adulti Bambini).

La seconda illuminazione è arrivata da Jonathan Zenti, che nel suo libro «Problemi» paragona i vari dolori repressi della sua vita a degli scatoloni in una cantina e la psicoterapia allo sgombero di quella cantina. Zenti scrive: «E proprio come gli sgomberi veri delle vere cantine, è meglio per tutti se c'è qualcuno di pagato per farli. Non che serva un grande professionista, uno sgombero di una cantina è uno sgombero di una cantina. E l'umanità è sopravvissuta per centinaia di migliaia di anni anche senza psicoterapia. Ma a farlo da soli si arriva fino a un certo punto. Una volta nella vita un favore un amico o un parente te lo può fare, ma se devi sgomberare un sacco di roba è meglio che chiami un'impresa che fa quello di lavoro, che significa prima di tutto assumersi l'onere in cambio di una retribuzione».

Durante l'estate ho fatto delle «sedute di prova» con alcuni psicologi/psicoterapeuti, prima tramite «Da uno bravo» e poi attraverso «Serenis» (sono entrambi servizi che permettono di fare sedute di psicoterapia in videochiamata a un costo di circa 50 euro, e quando accedi la prima volta ti sottopongono un questionario per individuare il professionista più adatto alle tue esigenze - con una seduta conoscitiva gratuita).

Dopo tre tentativi credevo di avere trovato la famosa persona giusta. Solo che poi ho cominciato ad attingere al mio rodatissimo repertorio di auto scuse («Non ho tempo, sono già incasinata con il lavoro», «Ok, non costa moltissimo. Però certo, dovrei risparmiare per il viaggio alle Canarie…»). E mi sono bloccata nuovamente.

Finita qui? No. Se sto scrivendo questo pezzo è perché, quando mi ero ormai rassegnata a me stessa, una persona che stimo molto mi ha fatto ascoltare il suo nuovo podcast. La persona si chiama Mariachiara Montera, mentre il podcast s'intitola «Guscio» - lo trovi su Storytel.

È un racconto - trasparente, doloroso, bellissimo - del percorso di psicoterapia di Mariachiara e di tre suoi amici. Ed è anche un po' una dichiarazione d'amore nei confronti della psicoterapia, che su Mariachiara ha avuto l'effetto di un «kintsugi umano» (il kintsugi è un'arte giapponese che prevede l'uso di oro o argento liquido per riunire i pezzi di un oggetto di ceramica rotto): «Ci spezziamo tutti, spesso, comunque, ma con la terapia è più difficile spezzarsi del tutto».

Ho messo in pausa. Ho pensato a quante volte invece mi fossi spezzata, per poi ricompormi. Da sola. Chissà se avevo sistemato tutti i pezzi nel posto giusto. Non lo avevo mai ammesso del tutto, ma in realtà sognavo che ci fosse qualcuno che venisse ad aiutarmi, a salvarmi. E se la mia cantina era troppo affollata per poter contare sull'aiuto di un non professionista, speravo che la salvezza potesse arrivare almeno dalla psicoterapia. Ma in questo ragionamento c'è un equivoco alla base, come dice Mariachiara: «La psicoterapia non vi salva, ma può darvi gli strumenti per convivere in maniera più serena con il passato e con il presente», «La psicoterapia vi aiuta a capire perché si attivano certi meccanismi, da dove arrivano alcune reazioni e giudizi, come costruiamo il nostro guscio».

Forse, dopo oltre 15 anni, sono pronta.
Per la prima volta, ho prenotato una seduta a pagamento con una psicoterapeuta. (E pure il parrucchiere).
Non so che cosa ne verrà fuori, in parte lo scetticismo dell'adolescente che rimane in me fatica ad andarsene. La diffidenza si gratta via a fatica. Ecco perché credo che aver scelto di affidarmi a qualcun altro, di smetterla di arrangiarmi, sia già un passo importante.
È proprio vero: nessuno si salva da solo.

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Illustrazione di Valentina Viggiano

infanzia

A tutti i miei oggetti custodi

Sara Gamberini

Pensando alla mia infanzia mi accorgo di non avere molti ricordi delle persone che mi hanno accompagnato e che ho amato, forse perché la mia vita da bambina per un periodo era tutta fatta di emozioni da tenere a bada, da allontanare.

Sono stata una bambina molto grande per qualche anno, una bambina uovo che accoglie gli adulti, una bambina lupo che difende il branco ed è sempre all’erta.

La casa dei miei nonni in Carnia, dove trascorrevo l'estate, aveva un orto che mio nonno coltivava con grande cura. Non esiste mai nemmeno una persona nei miei ricordi dell'orto, ci sono invece sempre dei fiori altissimi di tutti i colori piantati proprio vicino ai fagioli, al radicchio, alle patate. La bellezza del loro essere lì, in mezzo alle verdure, mi faceva stare bene. Erano meravigliosi, meravigliosi e basta, e io li guardavo.

I fiori custodi.

Quando avevo cinque anni, sempre tra i monti della Carnia, ho accudito delle lumache. Erano le mie figlie. Le tenevo chiuse in una grande scatola, sul coperchio avevo fatto dei buchi perché potessero vedere sempre il cielo e per farle respirare, davo loro da mangiare l'insalata squisita dell'orto e ogni giorno le pulivo. Guardavo con amore assoluto la scia cangiante che lasciavano sul cartone. Le facevo camminare sulle mie dita e a terra. Mi sentivo molto buona con le mie lumache, non mi sfiorava l'idea di procurare loro una sofferenza fino a quando un adulto un giorno mi ha chiesto: ti piacerebbe vivere in una scatola?

Ho liberato le mie lumache lasciandole andare su un vecchio muretto su cui cresceva il muschio e l'erba e quel giorno mi sono sentita libera come loro. Libera di non tenere fermo qualcuno vicino a me, come di certo invece avrei desiderato moltissimo fare.

Oh, come avrei voluto ricevere io tutto l'amore destinato alle mie lumache. Appena le ho liberate, le ho dimenticate, non mi sono mancate mai, ne ricordo in special modo una, tutta gialla che si chiamava Stella, per via del suo colore.

Un giorno nel bosco ho incontrato una volpe che zoppicava.
Ho fatto lo sciopero della fame e molti pianti sconsolati perché volevo adottarla e prendermi cura di lei per sempre. Mia nonna non amava gli animali e non mi ha permesso di accudirla, allora ho dovuto lasciare andare anche lei, lasciarla morire credo, senza poter dire niente perché così avevano deciso gli adulti che si occupavano di me. Volevano dimenticarsi di una volpe ferita. Da quel giorno mia nonna mi ha chiamato volpe, non so se per scherzo o per indelicatezza; a tutti i paesani raccontava del mio sciopero della fame e della mia idea, a suo dire assurda, di salvare una volpe zoppa.

Alcuni di loro mi guardavano con tenerezza, altri un po' ridevano. Ma nessuno sembrava aver capito l'urgenza, si chiacchierava tutti insieme dopo cena mentre la volpe era sola nel bosco, terrorizzata. Solo molti anni dopo mi sono resa conto che da piccola non tenevo in grande considerazione le persone, nessuna sembrava essere decisiva nella mia vita. Troppo lontane da me, complicate.

Certo, provavo affetto, amore sconsiderato talvolta, amavo la mia famiglia, e altre volte provavo odio, e fastidio, ma quasi nessun essere umano era mai diventato davvero determinante. Non quanto i ciclamini, almeno, che spuntavano nel bosco, come dei fratelli più piccoli, senza parole ma così vicini a me, così somiglianti, puntini rosa acceso in mezzo al verde scuro del bosco. Nemmeno quanto le lumache o l'albero di nocciolo che mio nonno controllava di tanto in tanto per capire quando fosse il momento di raccogliere i frutti, i suoi preferiti.

Mio nonno era un uomo molto gentile e, anche se nemmeno lui è stato così tanto determinante nella mia vita di bambina, era un uomo buono e io lo amavo per questo.
Lo amavo molto.
Non c'era giorno in cui non fosse buono.
Non saltava mai nemmeno un'ora di bontà.

Andavamo insieme a raccogliere i funghi e il profumo dei funghi nel cesto era come una specie di Dio per me, e lo erano le mucche nella stalla vicino a casa, creature amiche con i nasi grandi e tutta quella pazienza, le portavo al pascolo insieme a Davide, il proprietario, e ad altri bambini.

Dei bambini ricordo poco, e anche di Davide. Però raccoglievamo il fieno tutti insieme, ecco il fieno è stata un'altra mia passione, ne facevamo cumuli altissimi su cui saltavamo.

Anche saltare sul fieno è stato un accudimento speciale, quanto l'amore di una persona. Per non parlare della credenza color panna, dei biscotti a forma di S, di un vecchio cancello di legno.

Nessuna persona e molti profumi, fieno, mucche, noccioli.

Ho letto che i bambini, quando in famiglia gli adulti sono distratti o vivono un momento di confusione, trovano sempre altri custodi, ad esempio negli alberi, in un cane, nei libri, nelle corse sulla neve. E spesso quando nessuna persona risulta essere davvero determinante, ecco che i bambini spontaneamente si rivolgono ad altri elementi. Credo accada anche agli adulti.

Penso allora a come mi abbiano formato e avvicinato alle mie inclinazioni i ciclamini, la volpe zoppa, i fiori dell'orto, con quale potenza siano stati in grado di darmi davvero, e non poeticamente, una direzione, un'identità solida che è rimasta intatta fino a oggi.

Non li ho mai ringraziati, allora lo faccio qui, ringrazio i miei antenati vegetali, animali e tutti gli oggetti custodi che ho avuto.

Sara Gamberini è in libreria con «Infinito Moonlight» (NN Editore)