Diritti morali della Natura?

di Bernd Ladwig

Mario Mancini
26 min readJul 17, 2022

Tratto da: Micromega, n. 3–2022
Traduzione dal tedesco di Cinzia Sciuto

✎ Think|Tank. Il saggio del mese [luglio 2022]

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Nel dibattito sull’attribuzione di diritti alla natura bisognerebbe distinguere. Mentre infatti è perfettamente possibile, senza abbandonare l’individualismo normativo su cui poggia il nostro sistema giuridico, riconoscere diritti ad alcuni animali in quanto individui senzienti, molto più problematico appare il riconoscimento di diritti morali a entità come gli ecosistemi, gli ambienti naturali o la Terra in sé.

Viviamo nell’atropocene?

Dobbiamo riconoscere gli animali, le piante, le specie biologiche o anche ambienti naturali come i fiumi come autonomi soggetti di diritti? Questa è la tesi sostenuta dal giurista Christopher Stone (1972) in un saggio divenuto ormai un classico. Sulla stessa linea si collocano giuristi come Andreas Fischer-Lescano (2018) e Jens Kersten (2020). Kersten sostiene che abbiamo bisogno di una modifica costituzionale che tenga conto del fatto che viviamo ormai nell’Antropocene [1].. Secondo questi autori, concetti di politica ambientale come “società del rischio” e “sostenibilità” non sarebbero sufficienti a cogliere fenomeni come il cambiamento climatico antropogenico, l’inquinamento degli oceani e la rapida estinzione delle specie, così come insufficiente sarebbe l’unica protezione giuridica oggettiva della natura prevista dall’articolo 20 della Costituzione tedesca[2]. Questi autori sostengono infatti che la natura stessa deve poter avviare un’azione legale contro le violazioni che le infliggiamo in quanto soggetto autonomo attraverso rappresentanti umani che devono poter difendere in tribunale i diritti della natura all’integrità, alla vitalità, alla diversità e alla capacità di rinnovarsi (Stone 1972).

Finora, questo dibattito è stato condotto principalmente dai giuristi, che fanno notare che il diritto positivo non riconosce solo i singoli esseri umani come titolari di diritti, ma anche persone giuridiche come le imprese o le università e che quindi esso è in linea di principio aperto all’inclusione di altre entità nel cerchio delle persone giuridiche: animali (Stucki 2016), ma anche piante, ambienti naturali ed ecosistemi. Non essendo un giurista, non sono in grado commentare con competenza tali proposte di riforma del diritto positivo. Ciò che mi interessa invece sono i concetti morali che ne sono alla base. È solo in vista di essi che vorrei prima dire qualcosa sulla dogmatica della soggettività giuridica nella Costituzione tedesca.

La soggettività giuridica nella Costituzione tedesca e il concetto di diritti morali

Kersten scrive che il sistema giuridico è fondamentalmente libero di decidere chi o cosa riconoscere come soggetto giuridico. Da una prospettiva funzionalistica, «i sistemi giuridici tendono a differenziare i soggetti giuridici se questo facilita le relazioni giuridiche tra i soggetti stessi» (Kersten 2020, p. 6). Tuttavia, questa proposizione non è circolare solo se si parte da soggetti giuridici già riconosciuti per i quali il riconoscimento di altri soggetti rappresenterebbe un vantaggio. La Costituzione tedesca individua in prima istanza i singoli esseri umani come portatori di diritti fondamentali (Alexy 1994, p. 451). La sua Grundnorm, la sua norma fondamentale, è la dignità umana, che possediamo come individui[3].

La Corte costituzionale tedesca ha poi stabilito che tutto il sistema giuridico deve essere basato su un sistema di valori il cui centro sia la «personalità umana in libero sviluppo e la sua dignità all’interno della comunità sociale» (Sentenza della Corte costituzionale federale tedesca 7, 198 [205]). Questo significa tre cose: che
(a) l’ordinamento giuridico si basa su valori morali, i quali
(b) sono modellati sull’individualismo normativo, che però
(c) non è atomismo, ma tiene insieme libertà individuale e comunità sociale.

La Corte costituzionale tedesca considera dunque giustificata l’inclusione delle persone giuridiche nell’ambito della protezione dei diritti fondamentali solo a condizione che «la loro formazione e la loro attività siano espressione del libero sviluppo delle persone fisiche, specialmente nel caso in cui l’“effetto” sulle persone fisiche che stanno dietro le persone giuridiche le fa apparire sensate o necessarie» (Sentenza della Corte costituzionale federale tedesca 21: 326).

La prospettiva funzionalistica sulla questione della soggettività giuridica ha quindi bisogno di essere fondata su motivi morali che la giustifichino. La Costituzione non è neutrale rispetto all’alternativa tra un approccio individualistico e uno olistico. Riconosce infatti un valore in sé incondizionato solo all’essere umano individuale, che però allo stesso tempo considera anche come un essere sociale. Come mostrerò in seguito, una tale concezione normativo-individualistica ma non atomistica della soggettività giuridica non è necessariamente antropocentrica. Può infatti essere applicata a tutti gli animali non umani che possono sentire o fare esperienza di qualcosa. Anche questi esseri viventi hanno un valore in sé che dovrebbe essere protetto e promosso sotto forma di diritti degli animali.

Questo primo passo nella direzione di una estensione dei diritti a soggetti non umani potrebbe forse anche fornirci ulteriori ragioni funzionali per “attribuire” diritti soggettivi pure ad altre entità naturali come le piante, intere specie o addirittura ecosistemi, ma in ogni caso, non è necessario e nemmeno auspicabile rompere con la struttura normativo-individualistica del nostro sistema giuridico. Un olismo normativo, come sostenuto da alcuni filosofi della natura, sarebbe incompatibile con la funzione fondamentale dei diritti soggettivi, che è quella di considerare i singoli individui non fungibili come fini ultimi della morale e del diritto. Né dovremmo assumere che individui incapaci di coscienza possiedano autentici diritti soggettivi in senso morale.

Per autentico diritto soggettivo in senso morale intendo una pretesa valida che è giustificata in modo cogente da ragioni valide erga omnes e che un soggetto può far valere per se stesso, direttamente o attraverso rappresentanti ragionevoli. Valide erga omnes sono quelle ragioni che si applicano indipendentemente dalla particolare posizione sociale che qualcuno occupa o dalle sue particolari credenze o preferenze. Le norme morali hanno la pretesa di essere valide per qualsiasi attore morale, perché ognuno dovrebbe accoglierle nella propria coscienza.

Un diritto soggettivo è invece semplicemente attribuito se è valido in relazione a rivendicazioni che poggiano su ragioni morali secondarie (Merkel 2002, p. 129). Così, in linea di principio, individui naturali inconsapevoli come piante e funghi[4]ambienti naturali come fiumi e interi ecosistemi possono anche essere presi in considerazione come portatori di diritti soggettivi attribuiti. Quello che invece vorrei contestare è la tesi secondo la quale essi soddisfino il prerequisito per essere portatori di autentici diritti soggettivi in senso morale. Per soddisfare questi prerequisiti, dovrebbero infatti avere un valore in sé moralmente cogente e giustificato, analogo alla dignità umana e allo status morale dei singoli animali (come sostengono Emmenegger e Tschentscher 1994). Ma io non vedo alcuna ragione convincente a favore dell’idea che, per esempio, piante, fiumi o foreste abbiano un tale valore morale in sé.

Un po’ di assiologia

Voglio distinguere quello che qui chiamo “valore in sé “ da altri concetti assiologici, cioè concetti che rientrano nell’ambito semantico dei valori. Per “valore” non intendo un oggetto di tipo proprio né un tipo distinto di proprietà. Un valore è piuttosto un criterio di valutazione, e le proprietà a cui ci riferiamo nella valutazione sono proprietà fisiche o mentali ordinarie dell’oggetto valutato. Una valutazione consiste nel giudicare qualcosa come buono o cattivo. Gli oggetti della valutazione (soggetti, cose o circostanze) sono buoni in riferimento a proprietà che inducono i soggetti ad apprezzarli: ad acquistarli, ad ammirarli, a consumarli, ad amarli e simili. Un semplice esempio: se qualcuno considera il fatto che un telaio di una bici da corsa pesi poco come una buona ragione per comprare il telaio, significa che considera il basso peso del telaio un valore e il telaio scelto come un bene che corrisponde a quel valore. Il telaio non “è” un valore, ma “ha” un valore in virtù di una proprietà che fa propendere per il suo acquisto.

In questo senso, non ci sono valori senza soggetti che valutano e niente ha valore se non è buono per un soggetto (cfr. Korsgaard 2021, pp. 25 ss.). Questo non è mero volontarismo o soggettivismo. Un oggetto non diventa un bene per il solo fatto che un soggetto vuole che lo sia. Non creiamo valori dal nulla e non li proiettiamo in un mondo intrinsecamente privo di valori. Piuttosto, fa parte del nostro essere-nel-mondo che gli oggetti abbiano un significato carico di valore per noi. Le proprietà degli oggetti si relazionano con le proprietà dei soggetti in modo tale che questi ultimi li sperimentano come effettivamente degni di valore. Questo fatto non è indipendente dal soggetto, eppure possiamo centrarlo o mancarlo attraverso giudizi di valore.

Certamente, il fatto di considerare il basso peso del telaio come un valore si basa su ulteriori valutazioni, come il fatto di considerare piacevole o eccitante correre veloce in bici. Non tutti i giudizi di valore sono oggettivi nel senso che qualsiasi soggetto (umano) capace di giudicare debba necessariamente condividere il criterio di valore applicato. Questo fa parte del ragionevole pluralismo nelle questioni del bene, che pone anche dei limiti alla possibilità di una giustificazione cogente delle norme morali. Per una tale giustificazione, infatti, avremmo bisogno di standard di valore che non dipendono da caratteristiche contingenti come le preferenze sportive. L’espressione “valore in sé” intende significare che abbiamo tali standard: alcune entità meritano una risposta di apprezzamento in quanto tali, indipendentemente dalle ipotesi contingenti dei soggetti valutanti. L’esempio del telaio della bici da corsa non è quindi paradigmatico per tutti i tipi di beni. Il telaio ha un valore strumentale, mentre il ciclismo reso possibile da quel telaio può avere un valore intrinseco in quanto contribuisce direttamente alla realizzazione di una vita, che a sua volta ha un valore in sé per il soggetto.

Una cosa o una circostanza ha un valore strumentale se è buona per un soggetto come presupposto, come condizione al contorno o come mezzo. Così, il fatto di essere stato generato può essere considerato buono in quanto presupposto se il soggetto generato è, tutto sommato, felice di essere vivo. Il contenuto di ossigeno adeguatamente alto nell’aria che respiriamo è buono in quanto condizione al contorno di tutti i nostri processi vitali. Un martello è buono in quanto mezzo per un fine manuale.

Al contrario, qualcosa è intrinsecamente buono se contribuisce costitutivamente alla realizzazione di una vita. Il rapporto con una persona cara, il godimento di un ottimo vino, la meraviglia di un albero secolare sono esempi che illustrano anche quanto possano essere eterogenei i contenuti a cui possiamo attribuire un valore intrinseco. Quello che hanno in comune è semplicemente il fatto che arricchiscono la nostra vita. Attraverso di loro, la vita stessa è vissuta come un valore in sé. Ed è solo in riferimento a quest’ultimo che qualcosa può essere strumentale ed è solo in quanto contributo a esso che qualcosa può avere un valore intrinseco. Il valore in sé è presupposto quando si parla di questi altri tipi di valore. È il valore ultimo verso il quale gli altri valori, in quanto presupposti, condizioni al contorno, mezzi o contenuti, logicamente convergono.

Perché non solo gli esseri umani hanno diritti morali

Non sono solo le persone adulte in grado di condurre la loro vita in autonomia e responsabili delle proprie azioni ad avere accesso a contenuti intrinsecamente buoni. Anche i minorenni e le persone gravemente menomate sul piano mentale possono sperimentare la loro esistenza come più o meno lieta, e lo stesso vale per molti animali. Tutti svolgono un ruolo ontologicamente specifico nel mondo: possiedono proprietà non solo fisiche ma anche psicologiche che garantiscono loro una prospettiva propria sulla loro esistenza nel mondo. Sono tutti insostituibili soggetti individuali dell’esperienza di alcuni dei loro processi vitali. Questo li distingue non solo dagli oggetti inanimati ma anche, per quel che ne sappiamo, da animali semplici come i vermi, da tutte le piante, i funghi e i microrganismi.

Dal punto di vista normativo, questo significa che i soggetti dell’esperienza hanno interessi che entrano in gioco in vista di una protezione moralmente dovuta o anche di una promozione moralmente richiesta. Nel nostro caso, questa protezione e questa promozione prendono la forma soggettivo-giuridica dei diritti umani. E alcuni interessi rilevanti per i diritti umani li condividiamo in modo simile con molti altri animali capaci di sentire e fare esperienze. Dopo tutto, non siamo solo esseri razionali capaci di parola e moralità, ma anche creature finite che esistono nella carne, capaci di soffrire e che hanno bisogno di legami.

Certamente, i diritti includono i doveri, e gli animali non sono in grado di rispettare i diritti degli altri. Ma l’idea che solo coloro che possono osservare obblighi giuridici possono anche avere diritti non è convincente neanche in relazione ai diritti umani. Neanche i bambini piccoli o le persone affette da demenza grave, infatti, sono in grado di rispettare i diritti degli altri. Quello che conta al fine di considerarli soggetti morali a tutti gli effetti però è che per loro ci siano in gioco beni sufficientemente importanti da obbligare gli attori morali a rispettarli e che il modo in cui gli attori morali li considerano rispetto ai loro bisogni, capacità e preferenze rilevante per loro. E questo vale anche per molti animali. Dovremmo quindi includere anche questi ultimi nello spazio dei soggetti di diritti genuinamente fondati moralmente (cfr. Ladwig 2020).

I diritti proteggono insostituibili soggetti individuali dall’essere trattati come se fossero fungibili. Sono una risposta normativa al fatto ontologico che solo gli individui senzienti possono godere soggettivamente dei beni, sperimentare la loro privazione come frustrante e la loro violazione come dolorosa. Nessuna pianta, nessuna pietra, nessuna specie biologica, nessun ecosistema e nessuna Madre Terra sono capaci di questo. In riferimento agli animali è particolarmente importante riconoscere il diritto a una vita propria, perché tendiamo a vedere molti di loro quasi solo come risorse per i nostri scopi o addirittura come parassiti da sterminare. Ma i singoli animali non sono neanche mere risorse per la riproduzione di intere specie o ecosistemi, come sostiene invece un’etica olistica della tutela ambientale[5]Chi spara a un cervo per mantenere l’equilibrio ecologico in una foresta, per esempio, priva un individuo della possibilità di ulteriori esperienze; e in tal modo non è la foresta a guadagnare la possibilità di ulteriori esperienze, ma al massimo i suoi singoli abitanti superstiti. Questo significa certamente che le esigenze dei diversi soggetti individuali rispetto ai beni forniti da un particolare biotopo[6]possono entrare in conflitto tra loro. Ma per i singoli abitanti della foresta è in gioco qualcosa in un senso diverso rispetto alla foresta nel suo insieme. E questa differenza svolge un ruolo centrale nell’individualismo normativo dei diritti.

Individualista, ma non atomista

Abbiamo detto che il sistema di valori della Costituzione tedesca è normativo-individualistico, ma non atomistico. Riconosce cioè la dignità e i diritti dell’essere umano individuale come essere sociale. Questo ci dà la possibilità di riconoscere pretese giuridiche che non potrebbero derivare dagli interessi individuali dei soli portatori di diritti atomisticamente intesi. I diritti proteggono e promuovono gli individui in riferimento a beni di importanza fondamentale e centrale; allo stesso tempo, svolgono un ruolo abilitante e strutturante nelle e per le relazioni e le forme di vita. La democrazia è una forma di vita di questo tipo. È un bene comune di cui ogni individuo può godere solo se tutti i cittadini possono farlo. Ed è un bene veramente condiviso perché prospera solo grazie all’impegno orientato al bene comune di un numero sufficiente di cittadini. Nel processo democratico, questi cittadini devono relazionarsi tra loro, fosse anche in modo conflittuale, in vista di un progetto politico comune. Il progetto si basa sull’intenzionalità collettiva dei suoi membri, che però devono parteciparvi come individui sotto la propria responsabilità e con la propria voce. Per questo motivo, il riconoscimento di tutti i singoli cittadini come uguali partecipanti è costitutivo della democrazia. I diritti politici esprimono questo riconoscimento, rendendo così possibile la democrazia come progetto comune di tutti i membri.

L’esempio della democrazia, tuttavia, è ritagliato su misura della capacità specificamente umana di intenzionalità collettiva (Tomasello 2020) e presuppone una comprensione del processo di formazione di una volontà collettiva orientata a scopi condivisi, su cui ogni membro può comunque prendere posizione a partire dalla propria prospettiva. Evidentemente, questa capacità manca in altri animali che vivono in gruppo, come i lupi, i leoni e persino i primati (ibid.). Altri animali ancora vivono principalmente una vita solitaria e si uniscono solo per l’accoppiamento o per un tempo limitato a proteggere e guidare i piccoli.

Christine Korsgaard (2021, capitolo 11) ritiene tuttavia che si possa parlare di una dimensione comunitaria dell’esistenza dei membri di una stessa specie. Negli animali, questa dimensione non è fondata su procedure di decisione collettivamente vincolanti e nemmeno sulla comunicazione linguistica. Tuttavia, secondo Korsgaard sarebbe presente ovunque gli animali interagiscano in modo regolare, o anche laddove abbiano solo incontri occasionali. Di conseguenza, anche la vita sociale degli animali sarebbe degna di protezione. Questo include anche la protezione di intere specie, intese come popolazioni di diverse comunità animali. Anche i biotopi in cui si svolge la vita degli animali sarebbero di conseguenza da preservare. E gli animali avrebbero quindi il diritto di pretendere che noi rispettiamo la loro vita di gruppo e che non distruggiamo i loro territori[7]Così, anche se, come anche Korsgaard (ibid., capitolo 2) assume, i valori sono sempre legati alla prospettiva degli individui che sperimentano qualcosa come dotato di valore, una concezione atomistica non solo dei diritti umani ma anche dei diritti degli animali sarebbe monca. Gli esseri umani sono gli unici capaci di produrre e godere di beni veramente condivisi come per esempio i progetti politici. Ma molti altri animali hanno una vita sociale, e tutti gli animali hanno bisogno di altri membri della loro specie fosse anche solo per tramandare il proprio patrimonio genetico. Tuttavia, il valore in sé moralmente decisivo si incarna nella vita solitaria o comune degli individui e non nella loro capacità di riprodursi (diversamente da quanto sostenuto da Rolston 1997, p. 259). L’individuo conta moralmente per se stesso e non solo per i contributi che dà alla trasmissione del materiale genetico, alla conservazione della specie o agli equilibri ecologici. Tutto questo può avere valore strumentale, come presupposto, condizione al contorno o mezzo, o intrinseco, come contenuto che arricchisce la vita. Ma ognuno di questi valori rimane legato agli individui, che hanno un valore in sé come soggetti capaci di giudizi morali.

Come sottolinea Dieter Birnbacher (2006), sarebbe un errore trasferire il valore in sé di un’entità X a tutte le condizioni necessarie di X. Una delle condizioni per l’origine della mia vita è che un ovulo e una cellula spermatica si siano incontrati, ma da questo non consegue che i gameti avessero già un valore in sé. Nell’etica ecologica, invece, questa fallacia è molto diffusa (per esempio Sitter-Liver 1984; Rolston 1997). Alcuni filosofi non si accontentano di dire, per esempio, che un pascolo ha un valore strumentale come fonte di cibo per una mucca e che vagare liberamente su di esso ha invece un valore intrinseco. Poiché la mucca ha bisogno di accedere al pascolo per vivere bene e poiché la buona vita ha un valore in sé per la mucca, anche il pascolo avrebbe un valore in sé. Ma una tale inferenza da un risultato alle sue condizioni necessarie non è un procedimento idoneo per fondare il valore che conta moralmente[8]

Tutti i singoli esseri viventi hanno un valore in sé?

Ciò che conta, in definitiva, è la prosperità di individui che possono sperimentare la propria esistenza come buona. Questa è la mia conclusione preliminare. Ma forse anche la sola possibilità[9] della prosperità individuale è sufficiente per avere un valore in sé. Tutti gli esseri viventi individuali sono organismi che per un tempo limitato attraverso l’auto-organizzazione e il metabolismo si affermano contro la forza dell’entropia. E ciò che è funzionalmente buono per loro contribuisce alla loro prosperità come esseri individuali adatta alla specie. L’individualismo normativo sembra quindi essere applicabile in linea di principio anche agli animali molto semplici, alle piante, ai funghi e persino ai microrganismi. Il risultato sarebbe un biocentrismo normativo-individualista.

Philipp Balzer, Klaus Peter Rippe e Peter Schaber (2008) sostengono questo lungo passo che supera l’antropocentrismo facendo riferimento alla garanzia della «dignità della creatura» prevista dalla Costituzione federale svizzera[10] che vorrebbero fondare in modo differenziato. Secondo questi autori, la distinzione centrale non è quella tra l’essere umano e gli altri animali coscienti da un lato e tutti gli altri esseri viventi dall’altro, ma quella fra la dignità delle creature e la dignità umana. Caratteristica di quest’ultima è che non può essere pesata o graduata. In termini di contenuto, si tratta della capacità unicamente umana di sviluppare e mantenere il rispetto di sé.

Il rapporto pratico con se stessi, che viene così presupposto come un bene fondamentale, non è accessibile né agli animali né agli altri esseri viventi individuali che però, anche se non sono in grado di rispettare se stessi, sarebbero comunque degni di considerazione in sé. Dovremmo dunque avere nei loro confronti una considerazione morale anche indipendentemente dalla loro utilità per noi e dal piacere che ne ricaviamo. Secondo questa visione, hanno un valore intrinseco, che consiste nella loro dignità di creature. A differenza della dignità umana, però, la dignità delle creature può essere pesata e graduata. Così, uno scimpanzé ha un valore intrinseco più alto di un filo d’erba e una rosa di una muffa. Se così non fosse, anche il cibarsi di una pianta porterebbe a conflitti morali insolubili.

Il valore intrinseco apparterebbe dunque anche agli esseri viventi che non possono sapere o sentire di avere un valore e questo lo distinguerebbe dal valore in sé di una vita realizzata. I funghi e i microrganismi hanno, sì, una vita propria, ma non fanno esperienze. Allora perché dovremmo considerarli degni di valore morale in sé, a differenza di altre entità prive di coscienza di sé come pietre, statue e macchine? Balzer, Rippe e Schaber citano tre caratteristiche degli esseri viventi per fondare questa distinzione moralmente rilevante: hanno un proprio bene, perseguono obiettivi individuali ed esistono come individui.

Gli esseri viventi individuali incapaci di coscienza non hanno un bene proprio in senso fenomenico, ma in senso funzionale. Per esempio, è un bene per una pianta essere annaffiata regolarmente, altrimenti non potrebbe svolgere le sue funzioni naturali e finirebbe per appassire. Ora, si può anche certamente dire che è un bene per un’auto d’epoca essere guidata regolarmente e che essa si può trovare in condizioni migliori o peggiori, per esempio se la carrozzeria è lucida o invece è arrugginita. In quanto artefatto che serve alla locomozione, però, manca della seconda caratteristica degli esseri viventi: non persegue scopi propri. Gli esseri viventi, invece, cercano di mantenersi, svilupparsi e riprodursi nel loro ambiente. Le loro strutture sono in sintonia con questi scopi naturali e il loro comportamento è legato a essi. In terzo luogo, i singoli esseri viventi realizzano i loro scopi non come componenti di individui, ma come individui stessi. Questo li distingue da organi come il cuore o il fegato. A differenza di questi infatti, essi hanno, secondo Balzer, Rippe e Schaber, «un punto di vista proprio» (ibid., p. 69). Questo sarebbe il bene per gli esseri viventi stessi, su cui si fonderebbe anche il dovere della considerazione morale nei loro confronti.

Ma cosa si intende per punto di vista proprio delle piante, dei funghi o anche dei microrganismi? Non ci si può riferire certo a una loro prospettiva sulla loro esistenza nel mondo, perché non hanno stati mentali. Balzer, Rippe e Schaber sostengono che una posizione puramente soggettivista, che intende la sensibilità come condizione necessaria per uno status morale, contraddice importanti intuizioni morali. Una tale impostazione, infatti, non potrebbe spiegare perché consideriamo sbagliato manipolare gli animali attraverso l’allevamento o i prodotti farmaceutici in modo tale che possano sopportare anche le condizioni di allevamento più dure senza sofferenza (ibid., p. 70). Questo dovrebbe essere un argomento contro una concezione della qualità della vita limitata alla libertà dalla sofferenza, che di conseguenza includerebbe dunque anche caratteristiche oggettive. Ma se è così, perché la possibilità di attribuire un benessere individuale a tutti gli esseri viventi non dovrebbe essere sufficiente anche per attribuire loro uno status morale individuale?

Concordo che la sola libertà dalla sofferenza non è sufficiente per parlare della buona vita di un animale. Possiamo provocare dei danni agli animali non solo infliggendo loro sofferenze, ma anche attraverso delle privazioni. Il danno da privazione si verifica quando un essere umano priva o nega a un animale in sua custodia, senza un fondato motivo, un bene che rappresenta uno dei prerequisiti o una delle componenti fondamentali della buona vita dell’animale. Gli animali custoditi dalle persone di solito non sono autosufficienti come le loro controparti in natura. Un miglioramento del benessere animale attraverso la concessione di un bene fondamentale sarebbe quindi un’azione supererogatoria. Questo significherebbe solo che all’animale non verrebbe più negato qualcosa che gli spetta.

Se questa concezione del danno possibile viene ampliata per includere la privazione, l’esempio degli autori citati può essere letto in due modi diversi. Chi, per esempio somministrando dei farmaci, fa in modo che un animale già esistente riesca a sopportare soggettivamente anche le condizioni più misere, gli starebbe comunque provocando un danno da privazione. Questo giudizio non entra in contraddizione con un concetto di benessere legato agli stati mentali: chi danneggia un animale attraverso la privazione gli nega certi beni che avrebbero promosso direttamente o indirettamente il suo benessere soggettivo. La vita dell’animale diventa quindi in tal modo più povera nel suo valore intrinseco di quanto dovrebbe essere.

L’altra possibile interpretazione è che l’esempio riguardi l’allevamento di nuovi tipi di animali che sono quasi o completamente privi di coscienza. In questo caso, sarebbe ragionevole presumere che dei maiali-zombi ammassati in stalle senza luce ci provochino repulsione principalmente in virtù della loro forma animale. Un tale scenario estende l’immaginazione più di quanto non faccia la coltivazione di carne da cellule muscolari in una capsula di Petri. La carne consumata dagli esseri umani di solito non assomiglia all’animale da cui proviene. Quindi cosa c’è di fondamentalmente sbagliato nel coltivare tessuti e ricavarne carne per la quale nessun singolo animale ha dovuto soffrire e morire? Ma se questo è ammissibile, perché la produzione di animali incoscienti dovrebbe rimanere proibita? A parte il loro aspetto ancora animalesco, dal punto di vista morale non sarebbero da considerarsi diversi dal tessuto cellulare (cfr. Cochrane 2012, p. 124).

L’esperienza come istanza di obiezione

In ogni caso, l’individualismo normativo dei diritti morali è ancorato a un elemento diverso da quello che troviamo, secondo Balzer, Rippe e Schaber, in tutti gli esseri viventi. Gli autori sostengono che, a differenza dei singoli organi, gli organismi interi sono legati al loro proprio bene. Questo riferimento, tuttavia, si manifesta solo nel comportamento; non corrisponde né a un giudizio di valore proprio né a un giudizio di valore implicito nella propria esperienza. Il semplice comportamento delle piante e degli altri organismi, tuttavia, permette anche una lettura non individualista, come quella fatta dai sostenitori di un’etica naturale olistica.

Per i sostenitori dell’etica della terra o dell’ambiente come J. Baird Callicott (1997), Arne Naess (1997) o Holmes Rolston (1997), non sono i singoli esseri viventi ad avere valore in natura, ma la natura stessa sotto forma di specie, ecosistemi o anche la Terra nel suo insieme. Essi si richiamano al fatto che la natura è spietata con i suoi singoli abitanti, condannandoli tutti alla morte e la grande maggioranza anche a una fine “sviolenta”. I processi del mangiare ed essere mangiati sono funzionali soprattutto alla trasmissione del patrimonio genetico. Questo a sua volta identifica l’individuo come membro di una specie biologica. L’organismo individuale rappresenta un livello intermedio macroscopico tra il gene e la specie di cui incarna il codice (Rolston 1997, p. 258). È soggetto alle condizioni di selezione di un habitat insieme a tutti gli esseri viventi che vivono e interagiscono in esso. In termini olistici, i singoli esseri viventi sono solo elementi in strutture sistemiche, e i loro obiettivi sono solo funzioni parziali del sistema nel suo insieme.

Questa visione olistica si riflette anche nei valori della grande maggioranza delle persone. In pochi negherebbero che l’appassimento di un singolo fiore sia meno grave della scomparsa di un intero prato, e non solo perché senza un prato non sboccerebbe nessun singolo fiore, ma anche perché il prato sembra loro degno di essere conservato come habitat. Se la scomparsa di tutte le singole piante fosse funzionalmente necessaria a questo scopo, allora il “punto di vista” del prato sarebbe anche eticamente decisivo. Non serve sottolineare che i prati, a differenza dei singoli fiori, non sono organismi. La questione decisiva è precisamente a livello di quali relazioni funzionali dobbiamo collocare le valutazioni moralmente decisive. Gli organismi incarnano relazioni funzionali del proprio genere, ma sono anche al servizio di altre relazioni (sub)sistemiche.

Se invece un organismo ha anche una sua prospettiva di valore sulla sua esistenza nel mondo, questa rappresenta una sorta di obiezione alla sua riduzione a ruoli meramente naturali, che siano legati al pool genetico, alla specie, a un ecosistema o alla Terra intera. Questo ci dà una ragione per preservarlo in sé, anche da danni che sotto altri aspetti potrebbero sembrare opportuni. Con ciò non nego che anche gli insiemi come le specie e gli eco-sistemi abbiano valori intrinseci. Ma questi valori rimangono legati alle prospettive di quegli individui che hanno un valore in sé perché sperimentano alcuni degli eventi della loro vita come dotati di valore.

Conclusioni e prospettive

Dovremmo dunque riconoscere gli animali, le piante, i fiumi, gli ecosistemi o addirittura la Terra intera come soggetti di diritti? Quali che siano le ragioni funzionali per un tale riconoscimento, solo le vite degli individui capaci di coscienza hanno un valore in sé che ci dà ragioni moralmente cogenti che impongono un riguardo a loro dovuto. Sulla base del sistema di valori della Costituzione tedesca, ho sostenuto un individualismo normativo che non è né atomistico né antropocentrico. Non è atomistico perché è aperto anche ai beni collettivi e realmente condivisi. E non è antropocentrico, perché non solo gli esseri umani ma anche molti altri animali possono sperimentare la propria esistenza come buona.

Non abbiamo bisogno di un’etica biocentrica o addirittura olistica per sapere che abbiamo ragioni valide per preservare la biodiversità, mantenere gli equilibri ecologici e frenare il riscaldamento globale. Lo dobbiamo a noi stessi e a tutti gli altri animali il cui sostentamento naturale è a rischio a causa nostra. Chi propone l’introduzione di nuove persone giuridiche per la loro protezione dovrebbe essere in grado di dimostrare, parafrasando le parole della Corte costituzionale tedesca, che l’“effetto” sulle persone fisiche che stanno dietro le persone giuridiche le renda sensate o necessarie. Ciò che è sensato e necessario dipende anche dalle particolari tradizioni normative in cui è inserito il diritto positivo di uno Stato, che per garantire la propria legittimità empirica e il proprio ruolo di guida, dovrebbe essere in grado di fondarsi su valori condivisi. Non è un caso che siano stati in particolare i gruppi indigeni ad avere un ruolo di motore nel riconoscimento della natura come soggetto giuridico, per esempio nella Costituzione dell’Ecuador. Un ruolo analogo in Germania potrebbe forse essere svolto dalla tradizione romantica che ci ha dischiuso la natura come spazio di risonanza.

Almeno altrettanto importante, tuttavia, sarebbe una chiara comprensione degli interessi giuridici da proteggere e una visione realistica dei nuovi problemi di bilanciamento che ci si può aspettare. Probabilmente la proposta più utile che si ritrova nella letteratura sui nuovi soggetti giuridici è che dovremmo proteggere la natura dal sovraccarico, dall’impoverimento e dalla distruzione attraverso “procuratori” umani. Questi rappresentanti dovrebbero prima di tutto affinare i criteri per una rafforzata tutela della natura attraverso la legislazione e la giurisdizione. A questo scopo, però, non è necessario invocare il diritto morale della natura. Le rivendicazioni della natura sono su un altro livello di giustificazione rispetto a quelle dei singoli esseri umani e animali.

Neanche da un punto di vista meramente giuridico-funzionalistico, infatti, dovrebbero esserci dubbi sulla priorità dell’individualismo normativo rispetto all’olismo normativo. Da un punto di vista morale, il pericolo maggiore sta nel fatto che il presunto valore in sé della natura ci potrebbe fornire nuove apparenti giustificazioni per disprezzare il reale valore in sé della vita animale individuale. Questo valore in sé è violato, per esempio, dalla caccia ecologica che può essere permessa come ultima ratio per preservare la vita di altri soggetti di diritti morali. Ma non bisogna moltiplicare i pretesti che possono giustificarla inventando nuovi soggetti di questo tipo.

Riferimenti bibliografici

Alexy Robert (1994), Theorie der Grundrechte, Suhrkamp [trad. it. di Leonardo Di Carlo, Teoria dei diritti fondamentali, il Mulino, 2012].

Balzer Philipp, Rippe Klaus Peter, Schaber Peter (2008), “Menschenwürde versus Würde der Kreatur” [“Dignità umana versus dignità della creatura”], in Ursula Wolf (a cura di): Texte zur Tierethik [Scritti sull’etica degli animali], Reclam, pp. 61–72.

Birnbacher Dieter (2006), Natürlichkeit [Naturalezza], Walter de Gruyter.

Callicott J. Baird (1997), “Die begrifflichen Grundlagen der land ethic” [“Le basi concettuali dell’etica della terra”], in Angelika Krebs (a cura di), Naturethik. Grundtexte der gegenwärtigen tier-und ökoethischen Diskussion [Etica della natura. Testi di base dell’attuale dibattito animalista ed eco-etico], Suhrkamp, pp. 211–246.

Cochrane Alasdair (2012), Animal Rights Without Liberation [Diritti degli animali senza liberazione], Columbia University Press.

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* Questo testo è apparso originariamente in Frank Adloff, Tanja Busse (a cura di), Welche Rechte braucht di Natur? Wege aus dem Artensterben [Di quali diritti ha bisogno la natura? Vie d’uscita dall’estinzione delle specie], Campus Verlag, 2021.

Korsgaard Christine (2021), Tiere wie wir. Warum wir moralische Pflichten gegenüber Tieren haben [Animali come noi. Perché abbiamo dei doveri morali verso gli animali], C.H. Beck.

Ladwig Bernd (2020), Politische Philosophie der Tierrechte [Filosofia politica dei diritti degli animali], Suhrkamp.

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Naess Arne (1997), “Die tiefenökologische Bewegung: Einige philosophische Aspekte” [“Il movimento ecologico profondo: alcuni aspetti filosofici”], in Angelika Krebs (a cura di), Naturethik. Grundtexte der gegenwärtigen tier-und ökoethischen Diskussion [Etica della natura. Testi di base dell’attuale dibattito animalista ed ecoetico], Suhrkamp, pp. 182–210.

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Tomasello Michael (2020, ed. originale 2019), Mensch werden. Eine Theorie der Ontogenese, Suhrkamp [trad. it. di Silvio Ferraresi, Diventare umani, Raffaello Cortina, 2019].

Note

[1] Coniato da Paul Crutzen e Eugene Stoermer nel 2000, “Antropocene” è un termine utilizzato per indicare l’attuale epoca geologica caratterizzata dal fatto che molte condizioni e processi sulla Terra sono profondamente alterati dall’impatto umano, cfr. il sito della Subcommission on Quaternary Stratigraphy al link bitly/3JS1pUh, N.d.T.

[2] «Lo Stato tutela, assumendo con ciò la propria responsabilità nei confronti delle generazioni future, fondamenti naturali della vita mediante l’esercizio del potere legislativo, nel quadro dell’ordinamento costituzionale, e dei poteri esecutivo e giudiziario, in conformità alla legge e al diritto», N.d.T.

[3] L’articolo 1 recita: «La dignità dell’essere umano è intangibile. È dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla».

[4] Nel caso in cui questi siano individui, cioè esseri singoli indivisibili, e non in linea di principio singoli esemplari divisibili di specie naturali. Lascio questa difficile questione dell’ontologia degli enti naturali aperta.

[5] Così, per esempio, riguardo al presunto valore intrinseco delle specie biologiche, Holmes Rolston: «Il percorso intrapreso da un organismo individuale appartiene a un quadro più ampio, in cui anche la specie compie un percorso teleologico attraverso l’ambiente, utilizzando gli individui come risorse per il suo mantenimento per un periodo di tempo molto più lungo. La specie è il vero sistema vivente, l’insieme di cui i singoli organismi sono parti essenziali» (Rolston 1997, p. 258; corsivo nell’originale).

[6] Nell’ambito di un ecosistema, biotopo indica il complesso ecologico in cui vive una determinata specie animale o vegetale, o una particolare associazione di specie, N.d.T.

[7] La protezione delle specie intesa in questo modo, basata sulle comunità animali negli habitat naturali, va oltre la semplice conservazione o l’allevamento di esemplari di una particolare specie biologica. Non sarebbe infatti un contributo alla biodiversità moralmente desiderabile se tenessimo singoli animali di specie diverse isolati l’uno dall’altro nei giardini zoologici senza alcuna prospettiva realistica di rilasciarli un giorno in natura (Korsgaard 2021, p. 265). In questo modo, infatti, preserveremmo una specie come “tipo”, ma non contribuiremmo alla conservazione delle “popolazioni animali”. Solo come popolazioni, tuttavia, le specie hanno un valore per i singoli animali.

[8] Non ci sarebbe vita senza idrogeno, ossigeno, carbonio e azoto. Ma ne consegue forse che ognuno di questi elementi, in quanto condizione necessaria della vita, ha un valore intrinseco? E avrebbe questo valore anche se la vita non fosse mai sorta, semplicemente perché costituiscono una condizione necessaria della vita, che di fatto è sorta?

[9] Corsivo non nell’originale N.d.T.

[10] Il riferimento è all’articolo 120 sull’“Ingegneria genetica in ambito non umano”, che recita: «L’essere umano e il suo ambiente vanno protetti dagli abusi dell’ingegneria genetica. La Confederazione emana prescrizioni sull’impiego del patrimonio germinale e genetico di animali, piante e altri organismi. In tale ambito tiene conto della dignità della creatura nonché della sicurezza dell’essere umano, degli animali e dell’ambiente e protegge la varietà genetica delle specie animali e vegetali», N.d.T.

Da Micromega, n. 3–2022, pp.69–86

Bernd Ladwig è professore di teoria e filosofia politica. Il suo lavoro si concentra sulle questioni dei diritti umani, della dignità umana e della giustizia nel quadro di una teoria politica normativa. Attualmente sta lavorando a una monografia sui diritti umani e sui diritti degli animali.

Cinzia Sciuto è redattrice di “MicroMega”. Ha studiato filosofia e ha scritto La Terra è rotonda. Kant, Kelsen e la prospettiva cosmopolitica (Mimesis 2015). Si occupa di diritti civili, laicità e femminismo. Scrive di questi temi sul suo blog, animabella.it. Vive e lavora fra Roma e Francoforte. Per Feltrinelli ha pubblicato Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo (2018).

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.