La musica è sempre stata tutta uguale
Riflessioni a margine di un articolo, dagli anni '80 all'autotune
Mi ha salvato il fatto di non avere fiducia, perché le macchine come la DX7 della Yamaha, che andava fortissimo, ti mettono un timbro e ti incasellano in un'epoca. Senti la DX7 e dici: “Ah, anni Ottanta!”. Invece io ho sempre avuto fiducia nella liuteria, mi piace la chitarra perché quella, checché se ne dica, non passa mai.
—Flavio Giurato (Vice, 2018)
I suoni sono una cosa davvero strana. Non hanno una consistenza tangibile, eppure sappiamo riconoscerli tutti immediatamente, piazzarli con precisione in un punto dell’asse cronologico, sull’ascissa del valore artistico, e attribuire a questo particolare abbinamento (x;y) un significato culturale e sociale. Il suono di piano elettrico (preset 11) della tastiera Yamaha DX7, per esempio, ci orienta verso gli anni ‘80, la musica commerciale di genere pop, rock, soul o perfino country, il predominio di MTV; è un suono che ci fa pensare alla banalità dei biglietti d’auguri prestampati, ai capelli cotonati, alle scarpe da ginnastica, alla plastica, alle merendine. Megan Lavengood, professoressa della George Mason University, in Virginia, ha dedicato a questo strumento una serie di studi che trovo interessanti non solo per conoscere la storia di quel suono e di quell’epoca musicale, ma perché mi suggeriscono alcune riflessioni in più su come giudichiamo la varietà musicale di una certa epoca, sui bias che influenzano le nostre valutazioni di ciò che ascoltiamo, sull’importanza della critica e di un pensiero storico rispetto alla pura memoria. Oggi, su DLSO, è uscito un mio resoconto della DX7, di come sia stata usata allo sfinimento, abbandonata e poi ripescata da chi ancora oggi cerca di inventarci sopra nuovi suoni. Vai a leggerla. Poi, torna qui ché ho da dirti qualcosa in più.
La storia della DX7 è interessante perché la ragione del suo successo è in parte la stessa della sua caduta in disuso e del giudizio che abbiamo dei suoi suoni. Senza entrare troppo nel tecnico - chi sono io per rubare il lavoro ai veri smanettoni? - la DX7 aveva questi vantaggi sulla concorrenza:
costava poco: all’epoca della sua messa in vendita (1983) veniva via a meno di 2mila dollari (5mila attuali), la metà o addirittura un decimo rispetto alla concorrenza
produceva suoni realistici senza bisogno di campionarli, grazie alla tecnologia della sintesi FM, e grazie a un modo di creare l’inviluppo molto flessibile, permetteva di costruirsi un banco suoni potenzialmente infinito
compensava alla difficoltà di programmazione dei suoni con alcuni preset di fabbrica assolutamente credibili, ed espandibili con apposite cartucce
integrava la tecnologia, allora piuttosto innovativa, del MIDI per cui si poteva usare la tastiera anche come controller per produrre arrangiamenti ancora più pieni di suoni
I preset di fabbrica, in particolare, avrebbero decretato il trionfo e poi la decadenza della DX7: usare questo synth digitale come i suoi costruttori l’avevano concepito era abbastanza difficile. Giusto Brian Eno riusciva a farci miracoli, creando suoni che non si potevano sentire in nessun altro disco - e comunque, anche lui era consapevole della difficoltà. Ma fortunatamente, questi preset (tra cui il famigerato E. PIANO 1, di cui sopra, ubiquo da Whitney Houston a Twin Peaks) avevano un suono che funzionava: in parte per le caratteristiche della sintesi FM, ogni suono prodotto dalla DX7 aveva una chiarezza inimitabile, che contribuiva a far sentire la parte suonata da questo strumento anche in mezzo a un arrangiamento fitto.
Così, come scrivevo nel mio articolo per DLSO, nel 1986 il 61% delle hit discografiche finì per contenere suoni della DX7. Il mercato era affamato di canzoni, e quindi tanto valeva ricorrere a suoni di provata efficacia per produrle velocemente - in serie, viene davvero da dire. La conseguenza indesiderata di ciò? La pubblicazione massiccia di canzoni che “suonano tutte uguali”. Solo in parte si tratta di un’iperbole, e questa sensazione di omogeneità (monocoltura, si dice adesso) era assolutamente presente nel pubblico. La sensazione di chi ascoltava e, magari, aveva una qualche conoscenza tecnica degli strumenti in uso, era che la musica fosse diventata tutta uguale, e tutta stupida.
In questo articolo la dr.ssa Lavengood cita una lettera al direttore di Keyobard, del giugno ‘86: al consueto lettore scontento mancavano i tempi prima della DX7, quando i tastieristi erano veri tastieristi, mentre oggi si limitano a tenere schiacciato un tasto e fa tutto la macchina. Ora, al di là di alcune imprecisioni1 la reazione di questo lettore è del tutto identica a quella di molti ascoltatori odierni che, di fronte alle canzoni di oggi dicono che tutto è andato in malora. Come Lavengood, anch’io penso che più di una lamentela tecnica, dietro quella lettera ci sia una sensazione di fastidio per l’inflazione del suono della DX7: tutto suona uguale, sembra dire fra le righe il lettore. Anche oggi ti sarà capitato di leggere opinioni simili riguardo la parte più diffusa e commerciale dell’immensa proposta musicale: è tutta la stessa roba. Magari lo pensi anche tu, il che è legittimo. A patto che non si riscriva il passato per potersi dare ragione da soli.
Se vuoi dire che la musica di oggi è tutta uguale, devi avere l’onestà intellettuale di sostenere che la musica è sempre stata tutta uguale. Nel 1986, in particolare, ma per almeno metà del decennio tra il 1984 e il 1989, tantissime canzoni di generi differenti sembravano uscite dalla stessa scatolina. Il che non significa che non si siano prodotti dei capolavori (e delle discrete schifezze), approfittando di limiti e benefici di uno strumento così popolare. Il fatto che il basso di Danger Zone e quello di People Are People siano uguali, non implica che le due canzoni che lo contengono siano uguali. O, per dirla in altro modo, la linea di basso ossessiva e matta di Bizarre Love Triangle è “migliore” di quella di Take On Me anche se hanno lo stesso identico suono. Una differenza importante, però, c’è. A un certo punto i produttori hanno abbandonato la DX7 per la stessa ragione per cui l’avevano adottata: ce l’avevano tutti. E quando tutti hanno lo stesso suono, nessuno spicca. Per come funzionava la distribuzione musicale negli anni ‘80, questo poteva essere un bel problema non solo artistico ma anche commerciale. Sicuramente oggi le cose sono cambiate. Secondo alcuni, fare canzoni tutte uguali, negli anni ‘20, non è un bug ma una feature, come si dice con gergo da programmatori: cioè, conviene assomigliare alla media delle canzoni in circolazione, perché così è più facile finire nelle playlist e lasciarsi ascoltare.
Non ho dati per poter sostenere se questo sia vero o meno. Io credo che distinguersi paghi ancora, anche a livello commerciale (e per questo farò solo esempi pop). Quasi tutte le grandi star internazionali - Adele, Beyoncé, Dua Lipa, Lorde, Billie Eilish, Ariana Grande, Olivia Rodrigo - hanno più elementi che le distinguono tra loro e dalla gran parte delle colleghe di quante non le accomunino. Non mi riferisco solo a un impalpabile fattore X: parlo di differenze di registro vocale, preferenze di tempo e giri armonici, idiosincrasie produttive, scorciatoie melodiche. Se vogliamo fare un esempio italiano: Annalisa è diventata una popstar indiscutibile quando ha cominciato a fare canzoni synth-pop e italodischeggianti che non assomigliavano al resto del mainstream (allego una classifica dei 100 singoli più ascoltati del 2022, per chi volesse rinfrescarsi la memoria): un revival, certo, ma che è sembrato particolarmente riuscito perché si prestava meglio alla sua voce e alla sua immagine di quanto non avessero provato prima lei e il suo team.
Il pubblico riccardone del 1986, demonizzando la DX7, attribuendole la “rovina” della musica, e lamentandosi per la brutta fine che aveva fatto il pop, si comportava precisamente come si comportano oggi quelli che non si vergognano a scrivere: “la musica ai miei tempi era migliore”. Le polemiche che circolano sono sempre le stesse, ugualmente lontane dalla realtà dei fatti: “L’atteggiamento comune nei confronti dei preset della DX7, a metà anni ‘80 - prosegue Lavengood - può paragonarsi a quello di oggi nei confronti di autotune: tutti lo usano, ma nessuno vuole ammetterlo”. Eppure, il pubblico ascoltava con voracità quelle canzoni “tutte uguali”. Fino a quando il mercato non ha cercato altri suoni, e il pop è cambiato. Come fa sempre, ciclicamente.
Autotune un giorno passerà di moda. Da presenza assolutamente normale e quotidiana, il medium dentro il quale sguazzano tutte le orecchie esattamente come i pesci nell’acqua, anche autotune potrebbe finire per sembrarci un’affettazione tipica di un’epoca (i primi 20 anni del terzo millennio?). Questo è il destino dei suoni. Che però possono continuare a esistere senza doversi portare a spasso tutto il bagaglio di un’estetica (magari solo un piccolo borsellino). Anche la chitarra, la scelta di Flavio Giurato nell’intervista di Vice che ho citato all’inizio, un giorno smetterà di sembrare “senza tempo” e darà solo l’impressione dello strumento archeologico, come una cetra o un flauto d’osso. E allora la sua presenza, oggi tutto sommato invisibile, tornerà ad avere un significato socio-culturale pesantissimo. Perché, che i suoni siano o meno estetiche lo decidiamo noi. Noi che ascoltiamo, e noi che costruiamo discorsi intorno a quello che si ascolta (giornalisti? critici?).
Nell’articolo di DLSO parlavo di come oggi diversi musicisti usino la DX7 per produrre qualcosa di nuovo e non soltanto per evocare una certa epoca. Con autotune sta succedendo lo stesso, e non da oggi - nella prossima Weekly parleremo di This Could Be Texas degli English Teacher, e sarà tutto più chiaro.
Il pop (ma nessun genere, in realtà) non ha raggiunto uno stadio conclusivo ed eterno: non siamo arrivati alla fine della storia, nemmeno nella musica. Né ci troviamo nella fase della decadenza che immaginavano gli antichi quando pensavano che le età dell’essere umano fossero distinguibili come si distinguono i vari metalli - e chi parlava o scriveva era condannato a vivere sempre nel periodo meno pregiato (che sfortunaccia!). Le estetiche nascono e muoiono, gli strumenti invecchiano e risorgono, il gusto si evolve, i suoni non finiranno mai. Basta avere la pazienza di fare caso a questi cicli e goderci la musica che ci piace, senza dover per forza misurare la lunghezza del pisello della nostra generazione. Però, non dobbiamo nemmeno essere completamente indifferenti: se un produttore fa qualcosa di poco originale, se davvero dà l’impressione di preferire confondersi con la grande playlist universale piuttosto che provare anche solo una minuscola invenzione, allora varrà la pena farlo notare.
Due giorni fa, sul New Yorker Sinéad O’Sullivan si chiedeva - di base - a cosa servono i critici musicali se non danno conto della complessità del Taylorverso, della sua rilevanza, pur mentre stroncano l’ultimo album di Swift. Senza voler tornare su quel disco - ne ho parlato a sufficienza, direi - penso che la risposta migliore si trovi andando a indagare questo tipo di questioni: perché e come un suono entra ed esce dall’immaginario di un’epoca e diventa qualcos’altro? Sembrano questioni da smanettoni, ma sono la storia del nostro gusto.
La DX7 non conteneva né arpeggiatore né sequencer, due strumenti che permettono a un musicista di “tenere solo schiacciato un tasto”: in questo senso, la DX7 (con tutti i suoi pregi e difetti) era davvero uno strumento da “musicista”, nel senso che senza una certa tecnica sulle dita non avresti potuto farci molto.
Grazie per l'articolo, molto interessante. Aggiungerei al tuo ragionamento sulla musica contemporanea che, ad esempio, in moltissimi stra abusano dell'autotune, eppure non tutti i brani con autotune sono identici.
Diverso è quando parliamo di creatività. Può succedere che un artista, anche qui crei un album dove a parte 2-3 hit molto belle, le altre canzoni siano però tutte un po' simili tra loro. Non è solo un tema di strumenti, ma dell'uso che se ne fa. Sempre e comunque.
Dato che parliamo di synth e anni 80, sogno un giorno di prendere un Juno 60, originale magari :P