Dopo questa disavventura che ci costò un sacco di soldi per rifare tutti i materiali che erano stati stampati con il nome sbagliato, Nicola smise di essere un candidato alla mia successione. Restò nel suo ruolo, senza più alcuna possibilità di fare carriera. Io ero più tranquillo, perché a dispetto di ogni manuale di management, sapere che qualcun altro era pronto a prendere il mio posto non contribuiva alla mia serenità.
Sì, perché da un lato io odiavo l’azienda, avevo questo problema di fondo dei princìpi. L’azienda non ne aveva, questo era ovvio, e io ero convinto di averne. Dall’altro lato avevo bisogno del lavoro per vivere, per vivere bene, e non avevo il coraggio e l’intraprendenza per fare qualcosa di radicalmente diverso mettendo a rischio il mio benessere economico.
Era una duplice dissonanza. Una era tra me e l’azienda, l’altra tra il me ideale, che poneva i princìpi sopra tutto e chiedeva uno strappo d’orgoglio o almeno un gesto eclatante, e il me reale, troppo pigro per azzardare qualcosa di nuovo, troppo pauroso di fallire.
Ma convivere con queste due dissonanze richiedeva grandi sforzi, soprattutto per nascondere all’azienda la prima, perché la seconda invece era tutta interiore. C’erano notti in cui i miei sogni erano una zuffa continua tra il mio io-che-ha-una-grande-idea-fonda-una-startup-etica-e-diventa-miliardario-senza-nuocere-a-nessuno e il suo avversario storico, il mio io-rintanato-sotto-al-piumone. Vinceva sempre il secondo.
Così ogni mattina la prima dissonanza si ripresentava. E più ero scontento di come riuscivo a gestirla più le mie notti si affollavano di lotte tra i due io. E spendevo tantissimo tempo nel tentativo di blandirla. Spesso usando mezzi non tanto dissimili da quelli che criticavo.
6 - Da chi nascono i figli
“Credevo che i figli nascessero dalle donne.”
Il mio pollice chiuse la conversazione con uno scatto d’istinto, e fu una fortuna, altrimenti la discussione si sarebbe trasformata in uno scambio di insulti. Interromperla bruscamente mi diede il tempo per riflettere. Scarpieri mi era sempre sembrato una persona moderata, un grigio manager sgobbone con la passione per il Milan adeguatamente sfruttata per intrattenere relazioni con gli altrettanto grigi responsabili tecnologici dei suoi clienti, banche milanesi in perpetuo odore di fallimento.
Ma non uno schiavista. E invece eccoci qui, a discutere perché mai Ettore Giorgi, il capo progetto che gli era stato assegnato, dovesse proprio assentarsi per due giorni in occasione della nascita del suo secondo figlio. “Non è nemmeno il primo”, aveva detto, e poi aveva sintetizzato in quella ultima frase la sua posizione su legge di natura, etica del lavoro e filosofia morale e di portarmi sull’orlo di una crisi di pianto. Ero stanco di sentire idiozie, ero stanco di sentirmi nel posto sbagliato, e non avrei mai chiesto a Giorgi di ubbidire, non dopo anni in cui avevo ripetuto alla nausea a tutti i miei collaboratori che loro erano il nostro capitale. Capitale da macello, ovviamente, secondo Scarpieri.
“Ottavio, Scarpieri sta esagerando, vede solo quello che gli chiede il cliente e manderebbe tutti a farsi ammazzare per rispettare una scadenza. Senza pensare che ce ne saranno altre dopo, e se i ragazzi cominciano a incazzarsi e se ne vanno allora tutto il progetto va nella merda.” Cercavo la forza della ragione parlando con Ottavio Bossani, il mio nuovo capo e nuovo amministratore delegato succeduto a Storti e che era da sempre il manager di Scarpieri. Era una missione suicida, Bossani difendeva le persone del suo vecchio team come se fossero figli, solo un omicidio passato in giudicato poteva farlo vacillare. E infatti: “Eh, Scarpieri non ha tutti i torti, ‘sto bambino lo fa la moglie mica il marito”.
Bossani parlava come Jerry Calà, vestiva come Christian De Sica quando fa il ricco, ed era arrivato a comandare fottendo, uno ad uno, i suoi pari. Io e il mio gruppo lo chiamavamo “il trappolatore” in memoria dei tranelli che aveva teso con successo, o “ranza ranza ranza!”, una specie di grido di guerra che gli capitava di lanciare da dietro la sua scrivania. Ma noi eravamo diversi, obliqui rispetto al suo potere, figli di una acquisizione riuscita a metà e quindi ibridi, non gli appartenevamo al cento per cento. Quel briciolo di autonomia era l’unico appiglio che la coscienza mi avesse offerto per permettermi la convivenza.
“Comunque”, continuava Bossani su uno skype grazie a Dio senza video, “non me ne frega un cazzo dei suoi problemi personali, non si deve muovere dal cliente. Se poi la moglie sta male, vedremo.”
“Ottavio, ma abbiamo appena fatto un comunicato stampa per dire che siamo l’azienda italiana dove le donne vengono trattate meglio, un minimo di coerenza… .”
“Aldo, non confondiamo le cazzate di pubbliche relazioni con i progetti”, mi interrompe. “E poi, qui si parla di un ragazzo non di una donna.”
Appunto, pensai. Ore di discussioni per spiegare che il cambiamento passava dai mariti, dai padri. Gettate via, a meno di trovare una soluzione. Salutai con deferenza, imprecando senza emettere suono, con una smorfia che lui non poteva vedere. Avevo bisogno di una soluzione. Che non coinvolgesse Bossani perché io avevo ancora bisogno di lavorare lì.
Chiamai Simone, il mio capo del personale che ormai era diventato quasi un fratello, anche se ero abbastanza sicuro che mi avrebbe voltato le spalle al primo accenno di caduta in disgrazia. La nostra amicizia si era cementata nel gestire insieme decine di situazioni che sarebbero sembrate paradossali a chiunque fosse venuto dal mondo di fuori.
Così ci eravamo trovati a condividere un certo numero di segreti inconfessabili, alcuni debiti morali che non saremmo probabilmente mai riusciti a pagare e un armadio di scheletri fatti a forma di mail aziendali sciocche, sbagliate, pericolose e compromettenti raccolte negli anni.
“Il nome Scarpieri, cosa ti fa venire in mente?” gli chiesi.
“Scarpieri lo ricordo bene, malato di Milan, noioso su ogni altro argomento. Figli grandicelli, nessun divorzio, nessuna deviazione conosciuta. Caduto in disgrazia una dozzina d’anni fa, poi riabilitato e messo a comandare sulle banche milanesi.”
“Perché era caduto in disgrazia, lo sappiamo?”
“Era capo progetto di un cliente industriale importante e se ne era andato per tre giorni durante un rilascio; il rilascio ebbe dei problemi, la fabbrica si fermò e lui non si trovava neppure al telefono. Ci cacciarono.”.
Quindi, pensai, lui è convinto di essere stato punito per un errore passato ed ora è ossessionato da quel ricordo. “Non è fascista, ha solo un problema di stress post traumatico” dissi a Simone. Ma continuavo a non avere la soluzione. Simone mi aiutò: “Aspetta, non vuoi sapere dove era andato in quei tre giorni?”
Eravamo stati fortunati, in quei tre giorni di fine maggio dodici anni prima era nato il figlio di Scarpieri. Ma lui non era lì, e non era dal cliente. Era a Istanbul, a guardare il Liverpool farsi beffe della sua squadra. Sua moglie non aveva mai compreso quei dieci anni di pausa nella carriera del marito che per quei maledetti progetti aveva sacrificato anche il momento più bello della sua vita.
Chiamai Ettore Giorgi, bastarono pochi minuti per spiegargli cosa doveva fare. Lui fu efficientissimo, non per nulla era uno dei ragazzi migliori. Bastò che il giorno dopo, mascherandola da battuta surreale, dicesse a Scarpieri mentre prendevano il caffè insieme a un ruppo di colleghi che non sapeva se sua moglie avrebbe partorito a Liverpool o a Istanbul. Scarpieri impallidì ma solo Giorgi lo notò.
Ricevetti una chiamata mezz’ora dopo, Scarpieri mi chiedeva con chi avrei potuto sostituire Ettore per quel paio di settimane intorno alla nascita, il cliente avrebbe capito senz’altro e del resto, nella vita di un uomo, ci sono momenti che non ritornano. Gli detti un nome del mio gruppo a caso, lo ringraziai per la comprensione.
Chiamai di nuovo Bossani: “Ciao, sono Aldo. Abbiamo risolto quel problema, Scarpieri ha capito e abbiamo trovato una alternativa.”
“Boh, a me sembra si stia rincoglionendo, ma basta che non ci siano casini.”
Non ci saranno, pensai riattaccando.